Uriel Orlow Botanical Dream (#4), 2017 Archival pigment print on baryta paper 55 × 75 cm
Laveronica Arte Contemporanea è lieta di presentare la mostra personale
di Uriel Orlow intitolata Plant Echoes. Uno dei temi più significativi
affrontati da Uriel Orlow nel suo lavoro è la sfida ai metodi di
cancellazione.
Sia che analizzi l’eredità lasciata dal colonialismo e
dal post-colonialismo in Africa e nel Caucaso o nel Medio Oriente, il
silenzioso e meticoloso lavoro multimediale di Orlow ripopola storie
ormai dimenticate e restituisce nuovi modi di concepire gli interstizi
socio-politici trascurati o eccessivamente mediati nel corso della
storia.
In questa mostra,
l’interesse di Orlow su come le categorie colonialiste sopprimano la
cultura e il senso d’appartenenza indigeni lo ha portato in Sudafrica.
Qui ha scoperto che non solo gli inglesi e gli olandesi hanno rinominato
le piante locali e hanno tentato di sradicare l’uso tradizionale di
erbe medicinali additandolo come pericoloso, ma che hanno anche
introdotto 9000 differenti specie di piante esotiche, molte delle quali
hanno infestato e soppiantato la flora locale. Il nuovo corpus di opere
di Orlow sfrutta le piante come potente lente d’ingrandimento attraverso
la quale esplorare le ramificazioni socio-politiche, economiche e
spirituali della colonizzazione. Orlow si focalizza sull’importante
ruolo giocato dalle erbe medicinali (o muthi) nella cultura sudafricana,
visto che il 60% della popolazione locale si rivolge a guaritori che
possono scegliere tra più di 3000 specie vegetali. Con le aziende
farmaceutiche europee che sfruttano il mercato delle “cure naturali”, si
è aperto un nuovo fronte nella gara a chi possiede il diritto di
sfruttare ciò che cresce ed è sempre cresciuto dalla terra. In What
Plants Were Called Before They Had A Name (opera in corso dal 2015),
voci maschili, femminili e collettive recitano i nomi delle piante
autoctone in dieci diverse lingue africane, dall’isiZulu e dal SePedi
all’isiXhosa e al Khoi, nomi privi di alcun riconoscimento nella
tassonomia linneana. «Il linguaggio è legato alla politica» dice Orlow
«e la classificazione delle piante può essere considerata una forma di
violenza epistemica». In questo senso, il pezzo audio in surround funge
da dizionario orale, commovente e riparatore.
Echoes (2017) è una
serie di foto di macchie scure lasciate dalla linfa seccata sulla carta
protettiva proveniente dagli erbari sudafricani che risalgono all’epoca
dell’esplorazione coloniale. Le sagome lasciate dalla linfa non ci
dicono nulla dei nomi tradizionali o degli usi che di quelle piante si
facevano, piuttosto evidenziano l’imposizione di un sistema di
classificazione mono-dimensionale, che era ineguagliabile e venerato
come unico obiettivo. È difficile posare la vista su questi fragili
residui in netto contrasto con la premurosa delicatezza dei botanici che
lavoravano nel mezzo della crudele e selvaggia ferocia dell’apartheid
e, prima ancora, del colonialismo.
The Fairest Heritage (2016-17)
intercetta in modo caustico una versione della storia. Durante le sue
ricerche, Orlow ha scovato una pellicola girata nel 1963 per celebrare
il cinquantesimo anniversario del Kistenbosch, il giardino botanico
nazionale sudafricano. Soltanto tre anni dopo il massacro di Sharpeville
e un anno prima dell’incarcerazione a vita a Robben Island di Mandela,
cinquanta botanici provenienti da vari paesi fecero un tour per il
Sudafrica, in una sorta di festa in giardino per soli bianchi. Orlow ha
invitato quindi un’attrice africana, Lindiwe Matshikiza, a interagire
con le immagini, imponendo un’elegante e silenziosa aggiunta al passato,
quando il commercio di fiori esotici eludeva il boicottaggio delle
merci sudafricane (lo ha eluso fino alla fine degli anni ’80). In questa
mostra, Orlow continua a portare avanti e sviluppa la sua sensibile e
accurata rielaborazione di storie, rappresentando vecchi documenti
riproposti nel contesto di nuove messe in scena, dando voce a quelli che
sono stati messi a tacere per ripensare come l’impulso morale possa
prendere forza dall’arte.
English
Uriel Orlow - Plant Echoes
Laveronica Arte Contemporanea is delighted to present the exhibition
Plant Echoes by Uriel Orlow. One of the most significant themes in
Uriel Orlow’s work has been the challenging of methodologies of erasure.
Whether he is investigating the legacy of colonialism and
postcolonialism in Africa, the Caucasus or the Middle-East, Orlow’s
quiet and meticulous multi-media practice re-peoples ghosted histories
and delivers fresh ways to think about socio-political interstices that
have been overlooked or overmediated. In this exhibition, Orlow’s
interest in how colonialist categorisation expunges indigenous systems
of knowledge and belonging, took him to South Africa. Here, he found
that not only did the British and Dutch re-name indigenous plants and
try to eradicate as dangerous the use of herbal remedies, they also
imported 9000 different exotic plants, many of which choked local flora.
Orlow’s extraordinary new body of work uses plants as a potent lens
through which to explore the socio-political, economic and spiritual
ramifications of colonialisation.
Orlow focuses on the important
role of medicinal herbs or ‘muthi’ in South African culture, with 60% of
the population consulting a healer, who can choose from over 3000 plant
species. With European pharmaceuticals exploiting the market for
’natural’ cures, a new front has opened in the contest of who owns what
the land grows, has always grown. In What Plants Were Called Before
They Had A Name (2015-ongoing), male, female and collective voices
recite the names of native plants in ten African languages, from isiZulu
and SePedi to isiXhosa and Khoi, which had no legitimacy under a Latin
taxonomy. ‘Language relates to politics,’ says Orlow, ‘and plant
classification can be a form of epistemic violence’ In this sense, the
surround sound audio piece acts as a restorative and moving oral
dictionary.
Echoes (2017) is a series of photographs of dried brown
sap stains on protective paper from botanical repositories in South
African herbaria which date back to the colonial era of exploration.
The tracings tell nothing of the traditional names or uses of the plants
and highlight the imposition of a one-dimensional classification system
that was revered as objective and unrivalled. It’s difficult to look
at these frail residues, which contrast the tending delicacy of the
botanists working amidst the cruel and murderous savagery of apartheid
and colonialism before.
The Fairest Heritage (2016-17), poignantly
intercepts a version of history. During his research, Orlow discovered a
film made in 1963 to celebrate the 50th anniversary of Kirstenbosch,
the national botanical gardens of South Africa. Only three years after
the Sharpeville Massacre and a year before Mandela’s incarceration for
life on Robben Island, fifty international botanists toured South
Africa, in a whites-only garden party. Orlow invited an African actor,
Lindiwe Matshikiza, to interact with the projected images, delivering an
elegantly silent addendum to the past, when the trade in exotic flowers
evaded the boycott of South African goods till the late 1980s.
In
this show, Orlow continues and develops his sensitive and pertinent
re-working of histories, staging old documents in new settings, giving
voice to those who have been muted to reconsider how agency can be
re-enforced by art.