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30/03/18

Uriel Orlow - Plant Echoes


Uriel Orlow   Botanical Dream (#4), 2017  Archival pigment print on baryta paper   55 × 75 cm

Laveronica Arte Contemporanea è lieta di presentare la mostra personale di Uriel Orlow intitolata Plant Echoes. Uno dei temi più significativi affrontati da Uriel Orlow nel suo lavoro è la sfida ai metodi di cancellazione.



Sia che analizzi l’eredità lasciata dal colonialismo e dal post-colonialismo in Africa e nel Caucaso o nel Medio Oriente, il silenzioso e meticoloso lavoro multimediale di Orlow ripopola storie ormai dimenticate e restituisce nuovi modi di concepire gli interstizi socio-politici trascurati o eccessivamente mediati nel corso della storia.



In questa mostra, l’interesse di Orlow su come le categorie colonialiste sopprimano la cultura e il senso d’appartenenza indigeni lo ha portato in Sudafrica. Qui ha scoperto che non solo gli inglesi e gli olandesi hanno rinominato le piante locali e hanno tentato di sradicare l’uso tradizionale di erbe medicinali additandolo come pericoloso, ma che hanno anche introdotto 9000 differenti specie di piante esotiche, molte delle quali hanno infestato e soppiantato la flora locale. Il nuovo corpus di opere di Orlow sfrutta le piante come potente lente d’ingrandimento attraverso la quale esplorare le ramificazioni socio-politiche, economiche e spirituali della colonizzazione. Orlow si focalizza sull’importante ruolo giocato dalle erbe medicinali (o muthi) nella cultura sudafricana, visto che il 60% della popolazione locale si rivolge a guaritori che possono scegliere tra più di 3000 specie vegetali. Con le aziende farmaceutiche europee che sfruttano il mercato delle “cure naturali”, si è aperto un nuovo fronte nella gara a chi possiede il diritto di sfruttare ciò che cresce ed è sempre cresciuto dalla terra. In What Plants Were Called Before They Had A Name (opera in corso dal 2015), voci maschili, femminili e collettive recitano i nomi delle piante autoctone in dieci diverse lingue africane, dall’isiZulu e dal SePedi all’isiXhosa e al Khoi, nomi privi di alcun riconoscimento nella tassonomia linneana. «Il linguaggio è legato alla politica» dice Orlow «e la classificazione delle piante può essere considerata una forma di violenza epistemica». In questo senso, il pezzo audio in surround funge da dizionario orale, commovente e riparatore.



Echoes (2017) è una serie di foto di macchie scure lasciate dalla linfa seccata sulla carta protettiva proveniente dagli erbari sudafricani che risalgono all’epoca dell’esplorazione coloniale. Le sagome lasciate dalla linfa non ci dicono nulla dei nomi tradizionali o degli usi che di quelle piante si facevano, piuttosto evidenziano l’imposizione di un sistema di classificazione mono-dimensionale, che era ineguagliabile e venerato come unico obiettivo. È difficile posare la vista su questi fragili residui in netto contrasto con la premurosa delicatezza dei botanici che lavoravano nel mezzo della crudele e selvaggia ferocia dell’apartheid e, prima ancora, del colonialismo.



The Fairest Heritage (2016-17) intercetta in modo caustico una versione della storia. Durante le sue ricerche, Orlow ha scovato una pellicola girata nel 1963 per celebrare il cinquantesimo anniversario del Kistenbosch, il giardino botanico nazionale sudafricano. Soltanto tre anni dopo il massacro di Sharpeville e un anno prima dell’incarcerazione a vita a Robben Island di Mandela, cinquanta botanici provenienti da vari paesi fecero un tour per il Sudafrica, in una sorta di festa in giardino per soli bianchi. Orlow ha invitato quindi un’attrice africana, Lindiwe Matshikiza, a interagire con le immagini, imponendo un’elegante e silenziosa aggiunta al passato, quando il commercio di fiori esotici eludeva il boicottaggio delle merci sudafricane (lo ha eluso fino alla fine degli anni ’80). In questa mostra, Orlow continua a portare avanti e sviluppa la sua sensibile e accurata rielaborazione di storie, rappresentando vecchi documenti riproposti nel contesto di nuove messe in scena, dando voce a quelli che sono stati messi a tacere per ripensare come l’impulso morale possa prendere forza dall’arte.





English

Uriel Orlow - Plant Echoes

Laveronica Arte Contemporanea is delighted to present the exhibition Plant Echoes by Uriel Orlow. One of the most significant themes in Uriel Orlow’s work has been the challenging of methodologies of erasure. Whether he is investigating the legacy of colonialism and postcolonialism in Africa, the Caucasus or the Middle-East, Orlow’s quiet and meticulous multi-media practice re-peoples ghosted histories and delivers fresh ways to think about socio-political interstices that have been overlooked or overmediated. In this exhibition, Orlow’s interest in how colonialist categorisation expunges indigenous systems of knowledge and belonging, took him to South Africa. Here, he found that not only did the British and Dutch re-name indigenous plants and try to eradicate as dangerous the use of herbal remedies, they also imported 9000 different exotic plants, many of which choked local flora. Orlow’s extraordinary new body of work uses plants as a potent lens through which to explore the socio-political, economic and spiritual ramifications of colonialisation.



Orlow focuses on the important role of medicinal herbs or ‘muthi’ in South African culture, with 60% of the population consulting a healer, who can choose from over 3000 plant species. With European pharmaceuticals exploiting the market for ’natural’ cures, a new front has opened in the contest of who owns what the land grows, has always grown. In What Plants Were Called Before They Had A Name (2015-ongoing), male, female and collective voices recite the names of native plants in ten African languages, from isiZulu and SePedi to isiXhosa and Khoi, which had no legitimacy under a Latin taxonomy. ‘Language relates to politics,’ says Orlow, ‘and plant classification can be a form of epistemic violence’ In this sense, the surround sound audio piece acts as a restorative and moving oral dictionary.



Echoes (2017) is a series of photographs of dried brown sap stains on protective paper from botanical repositories in South African herbaria which date back to the colonial era of exploration. The tracings tell nothing of the traditional names or uses of the plants and highlight the imposition of a one-dimensional classification system that was revered as objective and unrivalled. It’s difficult to look at these frail residues, which contrast the tending delicacy of the botanists working amidst the cruel and murderous savagery of apartheid and colonialism before.



The Fairest Heritage (2016-17), poignantly intercepts a version of history. During his research, Orlow discovered a film made in 1963 to celebrate the 50th anniversary of Kirstenbosch, the national botanical gardens of South Africa. Only three years after the Sharpeville Massacre and a year before Mandela’s incarceration for life on Robben Island, fifty international botanists toured South Africa, in a whites-only garden party. Orlow invited an African actor, Lindiwe Matshikiza, to interact with the projected images, delivering an elegantly silent addendum to the past, when the trade in exotic flowers evaded the boycott of South African goods till the late 1980s.



In this show, Orlow continues and develops his sensitive and pertinent re-working of histories, staging old documents in new settings, giving voice to those who have been muted to reconsider how agency can be re-enforced by art.