Al
MAO con nuovi riallestimenti e una bella mostra fotografica con
gli scatti di Fosco Maraini.
Si
tratta di uno degli angoli più rilassanti e affascinanti di Torino,
in un quartiere storico e appartato, nella classica tradizione di
riservatezza piemontese.
Articolato
su cinque piani il MAO, Museo d'Arte Orientale, è una piacevole
esperienza, uno stimolante viaggio nella storia con tracce di terre
lontane.
Viaggio
che viene rinfrescato dalle diverse mostre e dai continui
riallestimenti conservativi, come il recente programma di rotazioni
delle lacche, che dopo quattro anni di esposizione vengono sostituite
da altre in archivio.
La
grande vetrina oggetto delle sostituzioni, posta all'inizio della
galleria dedicata al Giappone, ha ospitato e continuera' ad ospitare
oggetti pregevoli dei periodi Edo (1603-1868), Meiji (1868-1912) e
Taisho (1912-1926).
La
piu' importante tra le lacche esposte e' una grande ryoshibako
(scatola per carta e documenti) in legno dorato, della meta' del
1700, che presenta sul coperchio un paesaggio con ciliegi in fiore.
La decorazione, realizzata con polveri metalliche applicate secondo
la tecnica maki-e ("pittura cosparsa"), e' un prezioso
esempio dell'altissimo livello tecnico e artistico raggiunto dai
laccatori giapponesi, e fa di questa scatola uno dei piu' splendidi
oggetti di arte applicata in dotazione al MAO.
Degno
di nota e' anche uno squisito inro (contenitore che si portava appeso
alla cintura) coevo con intarsi di madreperla, raffigurante su un
lato un airone e sull'altro l'arcata di un ponte.
Con
la nuova rotazione sara' anche reintrodotto nella stessa vetrina un
emakimono (rotolo di formato lungo e stretto) firmato "Buncho",
dipinto a inchiostro su seta con fusti e foglie di bambu'.
Tani
Buncho (1763-1840) e' stato uno degli artisti giapponesi piu'
influenti del suo tempo. Dotato di grande abilita' tecnica, riusciva
a destreggiarsi con diversi stili pittorici, oltre ad avere innate
qualita' per l'insegnamento e grandi conoscenze della pittura antica,
sia cinese sia giapponese.
Al
piano terra è possibile vedere la serie di scatti e un rapido video,
realizzati da Fosco Maraini fra i primi a documentare questa
particolar tradizione di pesca femminile che si svolge sulle isole di
Hèkura e Mikurìa (Hegura e Mikuriya), al largo delle coste
occidentali del Giappone, dove vivevano e lavoravano gli Ama, un
gruppo etnico di pescatori, dai tratti culturali originali. Fra
questi tratti, quello più affascinante e peculiare era la pesca di
un particolare mollusco, l'awabi, che costituiva la principale
occupazione dei mesi estivi e la fonte di reddito principale
dell'intera comunità Ama.
A
Hèkura, la pesca degli awabi era un compito tradizionalmente
riservato alle donne, che la praticavano in apnea sui fondali davanti
all'isola, in alcuni casi profondi anche venti metri. Il reportage
di Maraini mostra le pescatrici Ama, donne dai corpi giovani e
atletici, rivestite con l’indumento tradizionale, il kuroneko,
mentre svolgono il loro lavoro quotidiano, che consisteva
nell’immergersi in mare in apnea fino a 20 metri di profondità,
utilizzando una lama ricurva per staccare il mollusco e portarlo in
superficie per posarlo in un cesto galleggiante. Un mondo sconosciuto
e una tradizione destinata a scomparire per sempre. Oggi esistono
ancora poche donne, ormai anziane, che praticano questa pesca, ma con
attrezzature diverse e moderne. Per questo il lavoro di Fosco
Maraini, oltre all’innegabile qualità delle fotografie, è
considerato una fondamentale testimonianza di un mondo scomparso.
Le
trenta fotografie presentate al MAO saranno arricchite dalla
proiezione del documentario realizzato da Maraini: il cortometraggio,
più volte proiettato negli anni seguenti alla sua realizzazione, è
stato considerato per lungo tempo perduto sino al recupero e al
restauro avvenuto grazie all’intervento del museo delle Culture di
Lugano.