Lo strano miscuglio molto celebrare ideato da Carolyn Christov-Bakargiev, in uno stile molto simile a Catherine David, Documenta X, attraversa la storia, sulla falsa riga del precedente curatore Roger Buergel, Documenta XII, miscela presente, passato, noto e sconosciuto aggiungendone una declinazione scientifica. Mentre da Okwui Enwezor, Documenta XI, sviluppa l’idea di piattaforma nei tanti incontri antecedente l’evento. Ci s’imbatte così in poliedrico miscuglio d’idee e opere, che vanno dai quadri di Salvador Dalì al computer di Konrad Zuse, senza dimenticare i tanti rivoli giovanilistici e le solite banalità alternative, come il cumulo “Doing Nothing Garden” di spazzatura colonizzato dall’erba ideato da Song Dong che oscura la visuale prospettica dall’Orangerie.
La scelta volutamente borderline fra cos’è arte e cosa non è, non funziona molto bene, perché così facendo si apre un percorso infinito di snaturamento dei significati molto facile e poco funzionale. Si torna alla wunderkamera, dalla meraviglia al funzionalismo, dal caos al bric è brac, dove tutto pare giustificabile, scusabile forse superfluo.
I tempi di crisi e il ricco budget a disposizione dovrebbero servire a focalizzare nuove prospettive e non a ripetere i vecchi stilemi, con le arrugginite strutture, apparentemente ammantate da tante parole. Da troppi anni la scusa del caos magmatico come fonte di rinnovamento viene posto in una realtà sempre più dolorosa e complessa, dove gli artisti sono passati dall’impegno diretto e reale all’appropriazione e uso promozionale della creatività altrui (che sia musica, teatro, danza, dolore …).
Se nell’insieme alcuni progetti, sono sicuramente validi, la maggioranza però risulta oramai scontata e debole. Colpisce molto come tutta questa «progettualità» muoia poi nella realizzazione, sia come arte sia come « impegno ». L’arte in questo evento si conferma sempre più slegata dall’azione culturale e sempre più un prodotto commerciale che gioca al sentimentalismo, un poco ipocritamente.
Ma vediamo le opere, iniziando dal Fridericianum, partendo dal lontano passato delle piccole sculture medio-orientali, miscelate giungendo agli oggetti del dittatore tedesco, in una vicinanza che sa più di spettacolo che di senso. Per passare ad opere consolidate di Man Ray o in una remota stanza due quadri di Salvador Dalí. All'ennesimo ovvio omaggio a Boetti e uno più valido a Fabio Mauri. L’idea di « cervello » come area di elaborazione potrebbe essere valida ma qui pare più un mediocre espediente, che si snatura completamente nelle prime stanze troppo svuotate a scapito dei piani superiori in certi casi troppo piene, senza ben capirne il perché. Fra le opere che più mi conquistano sicuramente quelle di Michael Rakowitz, con la sua contrapposizione fra i libri consumati e quelli scolpiti nel tempo. Mi soddisfano lo spazio di Kader Attia che nel suo lavoro installativo riesce a giustificare le sue sculture.
Va un poco meglio all’Ottoneum, dove il gioco fra arte e scienza pare funzionare un poco, anche se sembra più un esercizio scolastico che un lavoro di forte impatto artistico. Vedasi l’opera di Mark Dion che riprende i libri-albero realizzati nel 1771-79 col progetto 'Xylotheque Schildbach'.
Mi piace in pieno la Documenta-Halle dove a parte l’elevato presenza dei lavori di Gustav Metzger si crea un forte contrasto fra le opere di Thomas Bayerle e Nalini Malani, ma anche le stanze dedicate alla pittura hanno una dignità che altrove manca.
L’Orangerie risulta troppo confusa e alquanto osmotica più equilibrata la Neue Galerie, forse lo spazio che regge meglio nel suo complesso. Qui le opere di Geoffrey Farmer, una selezione di immagini dalla rivista Life dal 1935, che crea un lungo percorso storico, e di Wael Shawky, due video che attraverso dei burattini in ceramica raccontano la storia delle crociate secondo la cultura araba, sono fra i lavori più validi, come il l’opera “disobedient” di Sanja Ivecomivc.
Bella l’idea di usare il parco, un poco come fossero dei padiglioni nello stile della biennale di Venezia, peccato che la collocazione eccessivamente espansa li renda difficilmente fruibili, per cui fornitevi di un bicicletta e forse riuscirete a vederne alcuni. Nel complesso simpatici anche se molto banali e ovvi, come sempre la quantità non vuol dire qualità. Fra i tanti segnalo quello nel boschetto del canadese Gareth Moore e la grotta di Allora & Calzadilla.
Fra gli spazi paralleli ci sono dei negozi, la giovanilistica casa degli Ugonotti, dove c’è l’enfatizzato lavoro di Tino Sehgal (prossimamente alla Turbine Hall della Tate) che come al solito mi pare sempre più teatralmente autoreferenziale. Segnalo uscendo per l’allegra spensieratezza il lavoro di N.Solakov nel palazzo in fronte alla Neue Galerie. E mi piace l’intervento di Tacita Dean presente nell’ Echemaliges Finanzamt, grandi lavagne riportano profili di montagne dell'Afghanistan, semplice e bello.
In conclusione un evento sicuramente vasto e articolato con una buona serie di opere ben allestite. Ma rimane comunque una sensazione di abbondanza noiosa. Per cui alla fine si esce con la sensazione di una normale mostra, un poco troppo poco per un evento che aveva tante propositi.
Mi aspettavo dopo tutte le filippiche della curatrice qualcosa di più coraggioso, di nuovo e sperimentale in linea con i grandi cambiamenti enfatizzati. Visto che sia il tempo, la sua nomina è stata fatta nel Dicembre del 2008, e il budget, si parla di oltre 20 milioni di euro, lo avrebbe permesso.
Postilla
Mi domando come mai ancora oggi l’universo del web che oramai attraversa in modo deciso la vita quotidiana non sia partecipe attivamente, e non solo come semplice diario informativo, dei progetti artistici come questo che vuole essere una rappresentazione della cultura contemporanea. Questa che è la vera rivoluzione di questi ultimi 20 anni pare assolutamente assente dalla realtà artistica.
In realtà esiste un variegata forma di arte nel web ma viene marginalizzata dal “sistema arte”, forse perché difficilmente si potranno fare le solite speculazioni del mercato artistico.