Arriva dal 22 Ottobre, con la collaborazione dell' Archivio Storico della Biennale di Venezia, una mostra dedicata ad Alighiero Boetti (1940 – 1994), terzo appuntamento del ciclo espositivo proposto dalla GAM di Torino
Tra i primi tentativi d’interpretazione del video come linguaggio artistico ebbero fortuna i parallelismi tra monitor e specchio. Dopo i Doppelgänger della letteratura ottocentesca e le inquietudini oniriche del Surrealismo, l’immagine a circuito chiuso reintrodusse il tema del doppio nello studio d’artista lasciando che il tempo dell’opera si biforcasse tra il presente e la sua riproduzione istantanea. Davanti all’obiettivo della telecamera l’artista agiva e vedeva agirsi, riscoprendosi spettatore di sé stesso e metà di una coppia.
Quando Gerry Schum alla fine degli anni Sessanta invitò Alighiero Boetti a produrre un video, l’artista aveva già realizzato il lavoro fotografico Gemelli, 1968, e il tema del doppio, centrale nel suo lavoro da allora in poi, trovava suggello in una sedicesima lettera, aggiunta tra nome e cognome, nella firma dell’artista: Alighiero e Boetti. Quell’aggiunta sanciva un’identità al quadrato ma anche uno scarto sorprendente dallo schema dell’asettica tautologia concettuale. La frase “io sono io” conteneva, nella sua simmetria sintattica, anche il significato di “io sono un altro”. Non era che un piccolo slittamento, quasi un gioco linguistico, eppure nel raddoppiamento inevitabile dell’identità ogniqualvolta afferma sé stessa c’è in nuce tutto lo spirito e l’intelligenza dell’operare di Boetti.
Nel primo video presentato in mostra, Senza titolo del 1970, parte della raccolta Identifications di Gerry Schum, Boetti decide di volgere le spalle all’occhio della telecamera. Così facendo trasforma il proprio corpo in un segno nero verticale contro un muro bianco, posto perfettamente al centro dell’inquadratura. Le sue mani iniziano a scrivere contemporaneamente, verso destra e verso sinistra, la sequenza dei giorni della settimana, a partire dal giovedì fin dove la lunghezza delle braccia aperte gli consente di arrivare. In questo gesto l’artista diviene asse di uno spazio che va aprendosi nel tempo, nel susseguirsi delle lettere, nella sequenza dei giorni e, parallelamente, nello scorrere dei secondi del video. In un’unica azione Boetti intreccia il tempo e il doppio, i due aspetti fondamentali del linguaggio video e al contempo del suo lavoro.
Negli stessi mesi aveva realizzato un’immagine fotografica di sé stesso scattata dall’alto: Due mani e una matita dove stringe con le braccia tese un lapis posato sul bianco del foglio, come apice di un triangolo da cui lasciar scaturire il mondo e il dipanarsi del tutto. Molte sue opere successive avrebbero presentato una doppia riproduzione di quell’immagine, posta in alto e in basso, una rovesciata rispetto all’altra, come a chiudere e ad aprire lo spazio immaginativo del foglio e della tela, dove ogni possibile aspetto del reale può essere accolto. Tra le sue due mani si apre l’infinito spazio universale ma l’onnicomprensività del pensiero che si fa gesto non si rivolge soltanto alla totalità del visibile. Riguarda il suono non meno delle immagini ed è per questo che Boetti non scinde mai il proprio lavoro dalle parole legandole alle immagini e facendo di esse un’opera visiva là dove afferma che il suo scrivere con la sinistra è un disegnare. Tutto questo si traduce in uno dei suoi più noti ritratti fotografici: Strumento musicale del 1970, scattato da Paolo Mussat Sartor e presente in mostra. L’artista vi appare con le mani posate sui i due manici simmetrici di un curioso banjo ambidestro che con la sua cassa circolare e il doppio ponticello circoscrive al centro della visione un ideale ombelico sonoro da cui si immagina possano scaturire due diverse musiche speculari, due flussi di suoni che si dipartono dall’abisso del tempo.
A chiudere nel segno del doppio l’esposizione si presenta il video Ciò che sempre parla in silenzio è il corpo, realizzato da Boetti nel 1974, parte delle raccolte dall’Archivio Storico della Biennale di Venezia. L’opera offre, a cinque anni di distanza, una riflessione speculare del primo video, mutandone esclusivamente la frase scritta dall’artista. L’incipit è il medesimo: alle due curve contrapposte e congiunte della G iniziale di “Giovedì” si sostituisce la duplice curva della C di “Ciò” e nel divaricarsi progressivo delle braccia le parole del titolo, scritte a matita sul muro, danno voce al corpo che resta al centro silenzioso, origine del tutto e matrice del doppio: “È incontrovertibile – ha scritto Boetti – che una cellula si divida in due, poi in quattro e così via; che noi abbiamo due gambe, due braccia e due occhi e così via; che lo specchio raddoppi le immagini; che l’uomo abbia fondato tutta la sua esistenza su una serie di modelli binari, compresi i computer; che il linguaggio proceda per coppie di termini contrapposti. […] È evidente che questo concetto della coppia è uno degli elementi archetipi fondamentali della nostra cultura”.