Nella veste di curatore e di artista Danh Vo realizza la nuova mostra a Palazzo Grassi dal titolo "Slip of the Tongue" alla Punta della Dogana.
Un progetto molto articolato che attraversa la storia di Venezia ma non solo.
L'arte vista come tracce di storia e di esperienze, attimi emotivi e scelte culturali.
È la prima volta che nell’edificio di Punta della Dogana a Venezia un artista viene accolto nel ruolo di “curator”, parola cui la lingua francese fatica ad adattarsi. La ragione per mantenere la definizione di “curator” così com’è, senza tradurla né con conservatore né con curatore e neanche con organizzatore, ha a che fare con l’uso che ne fa Danh Vo: la pratica dell’artista come “curator” si avvicina particolarmente all’etimologia latina della parola, da cui deriva anche il temine inglese “care”, che qui potremmo anche tradurre con “conservare”.
Nell’Impero romano, infatti, il “curator” è il responsabile della gestione di diversi lavori pubblici: trasporti, igiene, polizia, fognature, acquedotti, navigazione, strade, giochi, addirittura la verifica dei conti. Svolge una funzione “riparatrice” in una cultura che preferisce restaurare e riutilizzare piuttosto che fare tabula rasa. Tali attività prosaiche prendono una piega più spirituale nell’Europa medievale, dove l’efficace “sollecitudine” amministra sia le anime sia gli affari terreni. Questa funzione descrive indubbiamente la responsabilità del “curator” moderno, che è, prima di tutto, colui (o colei) che si prende cura di ciò che accade agli oggetti una volta realizzati, una volta creati, compresa quella quota di adattamento e di “ri-creazione” contenuta in ogni loro presentazione in una nuova esposizione. Le vicissitudini della conservazione, della circolazione, del commercio, del frazionamento e della dispersione, della riparazione e del restauro, della collezione e dell’esibizione non riguardano solo il benessere delle opere d’arte, ma partecipano altrettanto pienamente alla loro storia, fatta di transizioni e, a volte, di rotture o di distruzioni.
Il contesto veneziano è eccezionalmente favorevole a un’esposizione che sia attenta a questi aspetti di vita e sopravvivenza che compongono le nostre storie culturali. Non a caso qui è stata firmata la Carta di Venezia (1964), un trattato internazionale sulla “cura” del patrimonio, di cui lo storico dell’arte Cesare Brandi – tra i fondatori dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro di Roma – fu uno dei promotori. Lo stesso Brandi non definiva forse “ogni intervento che miri a ripristinare un prodotto dell’attività umana” come “un atto critico e metodologico”? Il cuore storico dell’esposizione, inoltre, è costituito da opere che provengono da istituzioni veneziane: le Gallerie dell’Accademia e l’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini. Queste opere recano, in modo emblematico, le stimmate dei processi che, pur preservandole, le hanno alterate, rinnovando la loro forma. I rimaneggiamenti inflitti sono stati a volte brutali: pensiamo ai frammenti di dipinti mutili, ridotti per le esigenze di “adattamento” a un cambiamento di scenario, o ai dipinti in miniatura provenienti dal ritaglio (“cutting”) di antifonari miniati da monaci-artisti. La soppressione degli ordini monastici italiani in epoca napoleonica, per esempio, nel XIX secolo ha alimentato con pagine sezionate un vorace mercato londinese.
È proprio in queste “biforcazioni storiche” che si inscrive "Slip of the Tongue". Il titolo dell’esposizione (“lapsus”) si ispira a quello di un’opera dell’artista Nairy Baghramian (nata nel 1971) con cui Danh Vo intrattiene una conversazione attiva e di cui sono presenti in mostra tre installazioni: perché l’esposizione disegna anche una mappatura dell’amicizia. Il suo cuore pulsante è costituito da due composizioni straordinarie dell’artista americana Nancy Spero (1926-2010). Prima di tutto, lo splendido Codex Artaud(1971-1972): trentaquattro fragili rotoli composti di strisce di carta, che raccolgono una forma ibrida di scrittura-disegno-pittura e che possono essere letti come un’attività di “ripristino”, da parte dell’artista americana, del furore e della frustrazione che lo scrittore francese Antonin Artaud ha posto alla base del suo linguaggio incandescente. Cri du Coeur (2004), ultima installazione monumentale dell’artista, esprime il dolore intimo del cordoglio, “adattato”, vale a dire indirizzato, alle migliaia di persone colpite nello stesso momento dai disastri bellici e ambientali, anonimi con cui Nancy Spero crea un legame.
L’articolarsi tra la dimensione interpersonale della relazione e la sua dimensione sociale informa anche i progetti di curatela precedentemente condotti da Danh Vo, che riguardano artisti che non necessariamente ha conosciuto, come Felix Gonzalez-Torres (2009, Centre d’Art Contemporain Wiels, Bruxelles), Martin Wong (2013, Solomon R. Guggenheim Museum, New York) o l’amica Julie Ault (2013, Artists Space, New York). Prima di diventare comune a tutti, il coinvolgimento individuale si ripercuote anche nella presentazione degli oggetti che, come i candelabri della sala da ballo dell’Hôtel Majestic a Parigi, furono i testimoni silenziosi del susseguirsi di negoziati che decisero il futuro del Vietnam nel 1975, lo stesso anno in cui l’artista nacque proprio in quel Paese. Così, forse è anche in quanto “curator” che Danh Vo è artista.
Questo modo di immaginare l’attività dell’artista in una dimensione di cura – di salvaguardia, di violenza perpetrata sugli oggetti e di “riparazione” più che di interpretazione – sembra appartenere a ognuno degli oggetti che compongono l’esposizione "Slip of the Tongue". Costituisce anche il filo conduttore della scelta di opere nella Collezione Pinault – di Bertrand Lavier, Tetsumi Kudo, Lee Lozano… Tra i 35 artisti che Danh Vo ha scelto di invitare, si delinea e si sviluppa un dialogo cui dà forma una fotografia di Robert Manson che raffigura una cavalletta con la mano che la regge – e fa da supporto e sostegno –, immobili nella reciproca attenzione. (testo di Elisabeth Lebovici)