Nel “sistema dell’arte contemporanea” ci sono “teologi”
(critici, curatori, pubblicitari etc.) che professano atti di fede nei confronti
di certe “verità” (arte contemporanea come cultura) che in realtà non collimano
con quelli di una vasta comunità di persone.
“Teologi” che paiono interessati più
a seguire ispirazioni commerciali che propongono prodotti artistici da immettere
sul mercato con abili azioni di promozione e certificazione/bisogno di “aurea artistica”.
Cosa di per sé più che legittima, si investono dei soldi giustamente per averne
dei ritorni, ma voler ammantare queste attività come cultura non mi pare più credibile.
Penso che oggi molta dell’arte prodotta è da includere nei sistemi mercantili.
In
quanto l’arte (contemporanea), ma non solo l’arte, ha perso il suo valore storico
di rappresentazione culturale, espressa molto meglio da altri media: quali i video,
film e la fotografia. Si tratta quindi sempre più di una filiera produttiva immessa
per una commercializzazione con forti spinte “speculative”.
Divertente notare che questi “teologi” da una
parte manifestano il bisogno “elitario” di certe produzioni, che non hanno riscontro
se non a posteriore quando vengono cucite seguendo gli eventi accaduti, o bisogno
di successi “popolari” quando devono giustificare le spese di denaro pubblico, vedi
i tanti momenti di arte contemporanea che hanno riscontro di pubblico pari a zero
in proporzione al capitale investito.
Ovvio
che questa visione penalizzerà i tanti operatori che da anni agiscono in questa
fascia di mercato ma è anche vero che questi non hanno saputo negli anni di grandi
risorse, oramai alla nostre spalle, far cresce e diffondere queste loro “capacità”.