testo di Germano Celant pubblicato sul numero 5 di "Flash Art", novembre-dicembre 1967
Prima viene l'uomo poi il sistema, anticamente era così. Oggi è la società a produrre e l'uomo a consumare. Ognuno può criticare, violentare, demistificare e proporre riforme, deve rimanere però nel sistema, non gli è permesso di essere libero. Creato un oggetto vi si accompagna. Il sistema ordina così. L'aspettativa non può
essere frustrata, acquisita una parte, l'uomo, sino alla morte, deve continuare a recitare. Ogni suo gesto deve essere assolutamente coerente col suo atteggiamento passato e deve anticipare il futuro. Uscire dal sistema vuol dire rivoluzione. Così l'artista, novello giullare, soddisfa i consumi raffinati, produce oggetti per i palati colti. Avuta un'idea vive per e su essa. La produzione in serie lo costringe a produrre un unico oggetto che soddisfi, sino all'assuefazione, il mercato. Non gli è permesso creare ed abbandonare l'oggetto al suo cammino, deve seguirlo, giustificarlo, immetterlo nei canali. L'artista si sostituisce così alla catena di montaggio. Da stimolo propulsore, da tecnico e specialista della scoperta diventa ingranaggio del meccanismo. Il suo atteggiamento è condizionato ad offrire solo una "correptio" del mondo, a perfezionare la struttura sociale, mai a modificarla e a rivoluzionarla. Pur rifiutando il mondo dei consumi, si trova ad essere un produttore. La libertà è una vuota parola. L'artista si lega alla storia, o meglio al programma, ed esce dal presente. Non si progetta mai, ma si integra. Per "inventare" è costretto ad agire da cleptomane e ad attingere agli altri sistemi linguistici. Ma cosa faceva Duchamp? Certamente non era teso a soddisfare il sistema. Per lui esserci e vivere significava e significa giocare a scacchi (la mossa del cavallo non è mai rettilinea) e scegliere. Più volte cercato dal sistema, non si è mai fatto trovare dove si pensava di reperirlo.
Così, in un contesto dominato dalle invenzioni e dalle imitazioni tecnologiche, due sono le scelte: o l'assunzione (la cleptomania) del sistema, dei linguaggi codificati ed artificiali, nel comodo dialogo con le strutture esistenti, siano esse sociali o private, l'accettazione e la pseudoanalisi ideologica, l'osmosi con ogni "rivoluzione", apparente e subito integrata, la sistemazione della propria produzione o nel microcosmo astratto (op) o nel macrocosmo socioculturale (pop) e formale (strutture primarie), oppure, all'opposto, il libero progettarsi dell'uomo.
Là un'arte complessa, qui un'arte povera, impegnata con la contingenza, con l' evento, con l'astorico, col presente ("non siamo mai completamente contemporaneinel nostro presente"- Derbay), con la concezione antropologica, con l'uomo "reale" ( Marx), la speranza, diventata sicurezza, di gettare alle ortiche ogni discorso visualmente univoco e coerente (la coerenza èun dogma che bisogna infrangere!), l'uni-vocità appartiene all'individuo e non alla 'sua" immagine e ai suoi prodotti. Un nuovo atteggiamento per possedere un "reale" dominio del nostro essere, che conduce l'artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli ha stampato sul polso. L'artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l'opposto.
Da un lato, quindi, un atteggiamento ricco, perché legato osmoticamente alle altissime possibilità strumentali e informazionali che il sistema offre, un atteggiamento che imita e media il reale, che crea la dicotomia tra arte e vita, comportamento pubblico e vita privata, dall'altro una ricerca "povera", tesa all'identificazione azione-uomo, comportamento-uomo, che elimina così i due piani di esistenza. Un esserci, quest'ultimo, che predilige l'essenzialità informazionale, che non dialoga né col sistema sociale, né con quello culturale, che aspira a presentarsi improvviso, inatteso rispetto alle aspettative convenzionali, un vivere asistematico, in un mondo in cui il sistema è tutto. Un atteggiamento (che evidentemente non vuol contrapporsi ad alcuna ricerca particolare, risultando non una corrente, ma un modo di comportarsi, che evita persino la concorrenza, proprio per non cadere nuovamente nell'integrazione alle leggi del sistema e nel dialogo con lo stesso) teso al reperimento del significato fattuale del senso emergente dal vivere dell'uomo. Un'identificazione uomo-natura, che non ha più il fine teologico del narrator-narratum medioevale, ma un intento pragmatico, di liberazione e non di aggiunzione di oggetti e idee al mondo, quale oggi si presenta. Di qui l'abolizione di ogni posizione categoriale (o pop od op o struttura primaria) per una focalizzazione di gesti che non aggiungono nulla alla nostra colta percezione, che non si contrappongono come arte rispetto alla vita, che non portano alla frattura e alla creazione del doppio piano io e mondo, ma che vivono come gesti sociali a sé stanti, quali liberazioni formative e compositive antisistematiche, tese all'identificazione uomo-mondo.
L'avvicendamento da compiersi è dunque quello del ritorno alla progettazione limitata ed ancillare, in cui l'uomo è il fulcro e il fuoco della ricerca, non più il mezzo e lo strumento. L'uomo è il messaggio, per parafrasare Mac Luhan. Nelle arti visive la libertà è un germe che contamina ogni produzione. L'artista rifiuta ogni etichetta e si identifica solo con sè stcsso.
Così Pistoletto (come Warhol, Mari e Grotowsky) si è posto, sin dal 1964, il problema della libertà del linguaggio non più legato al sistema, alla coerenza visiva, ma alla coerenza "interiore", ed ha realizzato nel 1966 opere estremamente "povere", un presepe, un pozzo di cartone con tele spaccate al centro, una bacheca per vestiti, una struttura per parlare in piedi e una struttura per parlare seduti, un tavolo fatto di cornici e di quadri, una foto gigante di Jasper Johns, una lampada a luce di mercurio. Un lavoro teso alla registrazione "dell'irripetibilità di ogni istante" (Pistoletto), che presuppone il rifiuto di ogni sistema e di ogni aspettativa codificata. Un libero agire svincolato ed imprevedibile (nel 1967 un sarcofago, una casa dipinta con estrema libertà cromatica, una sfera di carta di giornali pressata, un corpo ricoperto di mica), un frustrare l'aspettativa, che permette a Pistoletto di rimanere sempre al confine tra arte e vita.
Un esistere rivoluzionario che si fa Terrore con Boetti, Zorio, Fabro, Anselmo, Piacentino, Gilardi, Prini, Merz, Kounellis, Paolini e Pascali, artisti che già nel loro agire si sono posti questo recupero del libero progettarsi.
Così Paolini esalta il carattere empirico e non speculativo del suo lavoro, sottolinea il dato di fatto. La presenza fisica dell'oggetto e il comportamento del soggetto in rapporto al sistema "pittura". La sua sovrapposizione fra idea e immagine lo porta alla "prise de pouvoir" degli elementi strumentali, non ancora direzionati e sistematicizzati, quali la tela, il colore, lo spazio (diventato ora lo spazio del mondo). Le componenti linguistiche ritornano così in campo quali paradigmi, primigeni, aniconici, liberi da ogni sistema di collocazione iconologica. Elementi di un farsi, che non si vincolano all'immagine da realizzare, ma si presentano per "fingere" se stessi.
Il sensismo comportamentistico sale ull'altare con Pascali e Kounellis. La realizzazione immediata di una sensaeione conduce in pochi anni Pascali a passare dai busti di donna, ai muri, ai cannoni, agli animali mitici, alla barca, al mare, alle pozzanghere, ai cubi di terra, al campo arato. Il suo libero atteggiamento si evidenzia: perché vincolarsi ad un solo prodotto? Ogni elemento è infatti sineddoche naturale del suo vivere e del suo esistere percettivo e plastico: perché diventare paradigma? Così Kounellis, colpito dalla ricchezza del suo esserci, recupera il suo gesto artistico col dare il becchime agli uccelli, con lo staccare le rose dal quadro, ama circondarsi di elementi banali ma naturali, quali il carbone, il cotone, un pappagallo. Tutto si riduce ad un conoscere concreto che lotta con ogni riduzione concettuale: l'importanza è focalizzare, per Kounellis, che Kounellis vive, il mondo vada in malora.
Un'urgenza all'esserci che ha condotto Gilardi, soffocato dai suoi tappeti-natura e dal poliuretano, a realizzare nel 1966 (mostra Arte Abitabile, Sperone) degli oggetti che sono la concretizzazione, non più mediata e mimetica, del suo agire strumentale e funzionale, ed ecco il bastone, la carriola, la sega, la scala. Per chi conosce "l'operoso" Gilardi, questi sono i suoi "simboli".
La tautologia è il primo strumento di possesso sul reale, eliminando le sovrastrutture, si riinizia a conoscere il presente e il mondo. Così Fabro concretizza, in un anno, due o tre atti di possesso sul reale. La difficoltà di conoscere, come possesso, è enorme, i condizionamenti non permettono di vedere un pavimento, un angolo, uno spazio quotidiano e Fabro ripropone la scoperta del pavimento, dell'angolo, dell'asse che unisce soffitto e pavimento di una stanza, non si preoccupa di soddisfare il sistema, vuole sviscerarlo.
Parimenti Boetti reinventa le invenzioni dell'uomo. I suoi gesti non sono più un accumulo, un incastro di segni, ma i segni dell'accumulo e dell'incastro. Si pongono come apprendimento di ogni archetipo gestico, di ogni invenzione primitiva. Sono gesti univoci che portano con sé "tutti i possibili processi formativi ed organizzati-vi", liberati da ogni contingenza storica e mondana. Dalle annotazioni gestiche di Boetti alle annotazioni perimetrali e spaziali di Prini, il passo è breve. Una stanza è e risuona di quattro angoli, un uomo si blocca in un passo da un metro, il pavimento diventa scalino, La sedia è un'immagine piatta sorretta da una sedia, ogni gesto di Prini si conclude nel presentarsi. Il dominio passa all'uomo dagli n sensi.
L'autonomia domina incontrastata in Piacentino. Le sue monumentali composizioni si impongono, sono un'aperta sfida alle convenzioni di spazio. di ambiente: impossibile organizzarle, collocarle, piegarle al codice spaziale abituale; seppur cromaticamente possedibili, al punto da lusingare la percezione colta dello spettatore, esse sfuggono. Come la luce fugge, cosi il mondo. Per possederli bisogna bloccarli nell'attimo in cui si incontrano. Così Merz violenta gli oggetti e il reale con il neon. Il suo è un inchiodare drammatico, che atterrisce. E un continuo sacrificio dell'oggetto banale e quotidiano quasi novello cristo (il culto dell'oggetto è una nuova "religio"). Trovato il chiodo, Merz, da buon filisteo del sistema, crocifigge il mondo.
Più sottilmente "povera" l'azione di Anselmo. Qui la precarietà si esalta. Gli oggetti vivono nel momento di essere composti e montati, non esistono come oggetti immutabili, si ricompongono di volta in volta, la loro esistenza dipende dal nostro intervento. Non sono prodotti autonomi, ma instabili, vivi, in rapporto al nostro vivere.
Infine le "entità espressive" di Zorio, enfatizzazioni visuali di un avvenimento instabile. Così la violenza dei tubi dalmine, dei colori, dei cementi, dialoga con la precarietà del tempo, con la sottile instabilità del maglio, che sta per cadere sulla "sedia", con il graduale cristallizzarsi dell'acqua salata, con la incredibile resistenza dell'elemento elastico rispetto alla struttura d'acciaio. Un'imprevedibile coesistenza tra forza e precarietà esistenziale che sconcerta, pone in crisi ogni affermazione, per ricordarci che ogni "cosa" è precaria, basta infrangere il punto di rottura ed essa salterà. Perché non proviamo col mondo?
Incontro, il 23 novembre, Icaro e Ceroli che mi confermano che questo atteggiamento è ormai di molti artisti. Alviani, Scheggi, Bonalumi, Colombo, Simonetti, Castellani, Bignardi, Marotta, De Vecchi, Tacchi, Boriani, Mondino, Nespolo. Questo testo nel suo farsi è già lacunoso. Siamo infatti già alla guerriglia.