Al Parco Arti Viventi di Torino è in corso una mostra, fino al Febbraio, attenta al legame tra la natura e la storia umana.
Partendo dal tempo coloniale si giunge a nostro presente riflettendo sull’eredità di quel complesso rapporto fra l’Europa e il resto del mondo.
I lavori di Uriel Orlow, che avevo già visto al Castello di Rivoli nel 2018, con la curatela di Marco Scotini, miscelano ricerca storica e opera artistica, con uno sguardo antropologico, fatto di dati letti in una poetica artistica. Il focus sulla botanica è il pretesto per scoprire i complessi legami fra dominazione, storia e sfruttamento, una bella mostra.
CS
Prima che le piante avessero un nome - Uriel Orlow
Opening 4 novembre 2017
5 novembre 2017 – 18 marzo 2018
Nella cornice di Artissima, il PAV Parco Arte Vivente presenta Prima che le Piante Avessero un Nome, mostra personale di Uriel Orlow. Curata da Marco Scotini, la mostra riporta l’artista in Italia dopo la personale Made / Unmade, tenutasi nel 2015 al Castello di Rivoli.
Il progetto si colloca nella linea di ricerca che il PAV dedica ai meccanismi di oppressione occidentale e alle strategie di resistenza indigene nel contesto coloniale, con tutta una serie di effetti nell’attuale capitalismo delle multinazionali. Un solco tracciato da Vegetation As a Political Agent (2014) a La Macchina Estrattiva (2017), nel quale il lavoro di Uriel Orlow s’inserisce con un’indagine a lungo termine sullo scenario sudafricano.
Come afferma Michel Foucault “la teoria della storia naturale non può essere dissociata da quella del linguaggio”. La conoscenza degli esseri non è scorporabile dalla possibilità di rappresentarli in un sistema di nomi. In qualsiasi cultura, dare un nome alle cose significa dominarle, così come, nel diritto, l’atto giuridico del nominare è una prerogativa esclusiva del soggetto che ne ha il potere. Se l’attribuzione di un nome, che non è mai un gesto neutrale, cela degli aspetti endemicamente coercitivi, questi risultano tanto più evidenti nei casi in cui l’oggetto della denominazione sia già in possesso di un nome. Il nome originale diventa così un campo di battaglia, un terreno di scontro tra la cultura che l’ha generato e gli agenti che intendono cancellarlo dalla storia.
Il colonialismo europeo veniva sia preceduto che fiancheggiato da importanti spedizioni botaniche. L’intento era quello di esplorare e classificare i nuovi territori e le loro risorse naturali, spianando così la strada a occupazione e sfruttamento. Il titolo di questa mostra cita l’installazione sonora What Plants Were Called Before They Had a Name, un glossario orale della vegetazione autoctona che ne elenca i nomi indigeni in diverse lingue africane, riscattando i meccanismi con cui i colonialisti avevano rinominato la flora locale, assimilandola al sistema di Linneo.
Nel suo complesso, il corpus delle opere esposte prende forma dalla ricerca svolta da Uriel Orlow tra Europa e Sud Africa; attraverso film, fotografie, installazioni e progetti sonori, l’artista delinea uno scenario che ha al centro l’idea del mondo botanico come palcoscenico di complesse e articolate dinamiche politiche.
Come nel caso di Unmade Film, Orlow propone nuovamente una sorta di narrazione esplosa, i cui frammenti, pur nella loro autonomia, gravitano attorno ad un nucleo centrale che ci rivela il complesso reticolo delle relazioni tra i diversi elementi della mostra. Per comprenderlo, nel video The Crown Against Mafavuke, Orlow ci conduce all’interno delle aule del Palazzo di Giustizia di Pretoria, dove nel 1940 si tiene il processo a carico di Mafavuke Ngcobo, guaritore tradizionale (inyanga) accusato dall’establishment bianco di “condotta non tradizionale”: i rimedi muthi di Mafavuke contenevano erbe locali, alcuni rimedi indiani e – qui si crea la controversia – elementi chimici e medicine occidentali. Il film esplora il confronto ideologico e commerciale tra due tradizioni mediche, diverse ma interconnesse, e il loro utilizzo delle piante, toccando le questioni del genere e del pregiudizio razziale. E mettendo in discussione le nozioni di purezza e origine in quanto tali.
Nel complesso mosaico delineato da Orlow, la narrazione del passato trova un’esatta controparte nella contemporaneità e nelle dinamiche che delineano la fase post-coloniale. Nella seconda parte dell’installazione video, intitolata Imbizo ka Mafavuke, si fa luce sulle strategie di spoliazione dei territori tipiche delle aziende multinazionali, denunciando come l’economia contemporanea porti avanti senza soluzione di continuità lo sfruttamento delle risorse naturali inaugurato in epoca coloniale.