Questa strana moltitudine
di persone che operano nel mondo dell’arte produce sempre più una marea di oggetti/prodotti
artistici. Sia per quantità che per ripetitività, spesso inutilmente conservabili,
decine di oggetti residuali prossimi all’inquinamento ambientale.
Se poi si riflette, si
nota che in questi ultimi vent’anni le opere degne di essere conservate paiono prossimi
allo zero. A conferma di ciò penso all’ esperienze dei Frac francesi con magazzini
infiniti di lavori che proprio ora ci si domanda se vale la pena conservare. Anche
i nostri musei di arte contemporanea hanno raccolto in questi decenni tanta roba,
ad esempio il Mart 30,000 pezzi, ma raramente hanno lavori che si potrebbero definire
“opere d’arte” da tenere per futura memoria.
Questa produzione di dubbia
qualità aumenta di “inutilità” soprattutto quando gli artisti hanno posizioni più
“celebrali” o “intellettualistiche”. Quasi come se il mondo dell’arte, rinunciando
alla rappresentazione per cui era nata, infatti si parlava di “arti visive”, dovesse
trasformarsi in una forma di “religione” astratta i cui adepti sono iscritti a culti
estetici strampalati, illogici esoterismi, ma che dovrebbero trasformare le masse
che serenamente vivono ignorandole del tutto.
La storia, già ha operato
una cesoia netta con tutte quelle derive, anche storicizzate, che negli anni sessanta
e settanta hanno trasformato il modo di fare arte e di cui oggi pare un completo
ripetersi destinandosi al medesimo oblio. Rivelando una stanchezza e soprattutto
una incapacità dell’arte di essere cultura, e rivelandone il banale aspetto di prodotto
consumistico per nicchia di appassionati/collezionisti, pilotati e illusi da continui
“rinnovamenti”.
Proprio i consumatori di
questi “prodotti” rivelano tanto del reale intento delle opere. Raramente sono valutate
per il loro messaggio, anche perché sempre più medesimo e ripetuto, ma per l’appeal
col quale sono poste sul mercato. Sia per una funzione di rappresentanza sia per
un trend economico.
Forse ne è prova proprio
su come oggi l’unicità sia diventato un “disvalore” mentre la molteplicità industrializzata
sia una “qualità”, rendendo così assurdi i valori del mercato, dove un pezzo unico
di un antico maestro vale meno di un banale multiplo di un “osannato artista” del
nostro presente.