Translate

04/04/12

Inquinamento artistico, ma esiste ancora l’opera d’arte?



Questa strana moltitudine di persone che operano nel mondo dell’arte produce sempre più una marea di oggetti/prodotti artistici. Sia per quantità che per ripetitività, spesso inutilmente conservabili, decine di oggetti residuali prossimi all’inquinamento ambientale.

Se poi si riflette, si nota che in questi ultimi vent’anni le opere degne di essere conservate paiono prossimi allo zero. A conferma di ciò penso all’ esperienze dei Frac francesi con magazzini infiniti di lavori che proprio ora ci si domanda se vale la pena conservare. Anche i nostri musei di arte contemporanea hanno raccolto in questi decenni tanta roba, ad esempio il Mart 30,000 pezzi, ma raramente hanno lavori che si potrebbero definire “opere d’arte” da tenere per futura memoria.

Questa produzione di dubbia qualità aumenta di “inutilità” soprattutto quando gli artisti hanno posizioni più “celebrali” o “intellettualistiche”. Quasi come se il mondo dell’arte, rinunciando alla rappresentazione per cui era nata, infatti si parlava di “arti visive”, dovesse trasformarsi in una forma di “religione” astratta i cui adepti sono iscritti a culti estetici strampalati, illogici esoterismi, ma che dovrebbero trasformare le masse che serenamente vivono ignorandole del tutto.

La storia, già ha operato una cesoia netta con tutte quelle derive, anche storicizzate, che negli anni sessanta e settanta hanno trasformato il modo di fare arte e di cui oggi pare un completo ripetersi destinandosi al medesimo oblio. Rivelando una stanchezza e soprattutto una incapacità dell’arte di essere cultura, e rivelandone il banale aspetto di prodotto consumistico per nicchia di appassionati/collezionisti, pilotati e illusi da continui “rinnovamenti”.

Proprio i consumatori di questi “prodotti” rivelano tanto del reale intento delle opere. Raramente sono valutate per il loro messaggio, anche perché sempre più medesimo e ripetuto, ma per l’appeal col quale sono poste sul mercato. Sia per una funzione di rappresentanza sia per un trend economico.

Forse ne è prova proprio su come oggi l’unicità sia diventato un “disvalore” mentre la molteplicità industrializzata sia una “qualità”, rendendo così assurdi i valori del mercato, dove un pezzo unico di un antico maestro vale meno di un banale multiplo di un “osannato artista” del nostro presente.