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07/07/10
Berlin Biennale
Ispirandosi ad Adolf Messel, pittore in bilico fra un lirismo illustrativo ottocentesco e un verismo novecentesco quasi fotografico, la curatrice della 6 Biennale di Berlino Kathrin Rhomberg ha realizzato una selezione di oltre una quarantina di artisti in un difficile e delicato equilibrio fra ricerca culturale (dal sociologico all’estetico) e una matericità realista e quasi antiestetica.
Dall’artista di due secoli fa dovrebbero venire alcuni stimoli per il difficile tema della realtà e della sua rappresentazione. Dall’esistenza di questa percezione del mondo nasce una serie di argomenti che vengono sviluppati in modo molto concettuale ma con derive estetiche molto fragili, forse come la consapevolezza stessa della realtà, frastagliata e in continuo cambiamento.
Se trovo molto interessante e impegnativo questa progettazione, rimango molto perplesso sulle soluzioni estetiche. Soprattutto se dimenticano che l’arte è un fatto visivo per cui negando questo valore, lo sguardo, rendono questi processi solo celebrali. Spesso anche inutili, poiché il pubblico stesso pare frequentarli più per un atteggiamento elitario/modaiolo che per un vero interessamento partecipativo. Così che già al prossimo evento immancabile sarà digerito e dimenticato.
Come infatti è successo pochi giorni dopo a Basilea, nella produttiva ed economica fiera svizzera. A cui quasi tutti gli ospiti di Berlino hanno partecipato all’allegre giornate di business economico ricordandosi ben poco della dolorosa realtà proposta alla Biennale.
Per cui tutti questi approcci tematici complessi e sicuramente meritevoli di attenzione diventano una banale cartina tornasole più per avere consenso e attenzione che per un reale impegno diretto, un esempio per tutti il cinismo spietato dell’opera di Renzo Martens.
Tornando comunque alla singole opere si segnalano l’istallazione di Petrit Halilaj dall’espressivo titolo “ The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real” o lo sgocciolare assopito di Adrian Lohmüller.
L’intervento fra lo scultorio e il performativo di Roman Odeck o gli oggetti diffusi/svuotati di Olsen che danno questa sensazione di poverismo estremo di una società oramai consumata, come la nostra, che forse solo con il vitale impulso “barbarico” potrà ridefinirsi e rinascere. La sezione video è troppo ricca e antropologica per affascinarmi.
Forse la cifra più purista possono essere i disegni di Sven-Åke Johansson, che nella loro infantile espressione hanno una chiarezza sul disorientamento contemporaneo. Rimandando forse al realismo del bambino, l’unico che rivela le nudità dell’imperatore.
Tutte le informazioni nell’efficiente sito http://www.berlinbiennale.de