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07/07/10

Lo fanno meglio gli italiani?




L’arte contemporanea affascina un sempre più vasto pubblico e in questi ultimi anni diverse case editrici hanno pubblicato interessanti saggi critici, materiali documentativi, testi di analisi e biografie di noti artisti viventi che popolano quest’affascinante mondo.

Recentemente sono usciti due avvincenti libri che, per il pubblico italiano, si compensano a vicenda per dare una visione del mondo artistico a 360 gradi.

Si tratta del testo di Luca Beatrice “Da che arte stai?” edizioni Rizzoli 16,50 euro e il testo di Donald Thompson “lo squalo da 12 milioni di dollari” edizioni Mondadori 18 euro.

Il primo tomo è scritto dal noto critico/curatore torinese, che l’anno scorso con Beatrice Buscaroli ha curato alla Biennale di Venezia il Padiglione Italiano, realizzando una collettiva di artisti teoricamente ispirata al futurismo marinettiano.

Il libro narra i recenti ultimi decenni dell’arte e di noti eventi italiani, trattandoli in modo alquanto chiaro e ironico. In una lettura scorrevole e sfaccetta.

Svelando, secondo il suo personale punto di vista che parteggia per un tipo di arte più classica e formale, una strana realtà della situazione italiana che tenta di darsi un ruolo nel mondo dell’arte internazionale e nostrana.

Se le osservazioni proposte paiono valide dispiace percepire che le alternative proposte da Beatrice paiono quasi identiche in valore di relazione e di qualità a quelle criticate, per cui il cerchio si chiude fra la sua idea e la tendenze di altri in vorticosi gironi di sopravvivenza.

Al consumatore/collezionisti non resta che l’ultima sentenza.

Comunque alla fine si ha un valido quadro di un sistema che tenta di durare alle spinte più organizzate e dinamiche che arrivano dall’estero, cercando di costruire/imporre mode e gusti per il sistema stesso.

Proprio dall’estero viene il secondo volume, un saggio di Donald Thompson, un economista/collezionista d’arte, che in certe parti, ricalcando un poco lo stile del famoso “Il giro del mondo dell'arte in sette giorni” di Sarah Thornton, propone un discorsivo racconta sulla realtà internazionale dell’arte con un piglio più attento al valore commerciale e con una serie di osservazioni pungenti e molto condivisibili sulla realtà anglo/americana.

Centrale nel suo testo l’idea del brand, cioè la capacità di dotare un oggetto (anche artistico) di un magnetismo di valori e desideri che lo rende desiderabile. Così facendo si giustifica un plus-valore, che va oltre il valore reale a cui riuscirlo a venderlo.

Considerando che il numero di collezionisti è in crescita esponenziale, parallelo al numero di nuovi miliardari il gioco pare facile a farsi.

Leggendo i due testi ci si rende sempre più conto di come la realtà dell’arte non sia più quel luogo romantico e sognante del creare.

Quello che poteva essere un territorio di valore culturale e sociale, ha lasciato spazio a un sistema commerciale spietato.

Dettato dalle regole del denaro e del successo mediatico, dove sono tanti, e lontani dall’arte, gli elementi che decretano un effimero valore “artistico”, abilmente proposto in una tristissima globalizzazione che omologa e appiattisce tutto.