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14/11/25

Fictions of Display

 
Mostra Fictions of Display @ MOCA, foto di Jeff McLane

In una nota scritta nel 1962, l'artista Claes Oldenburg affermava che "il teatro è la forma d'arte più potente perché è la più coinvolgente". Poche righe dopo aggiungeva: "Non vedo più la distinzione tra teatro e arti visive molto chiaramente... distinzioni che suppongo siano una malattia della civiltà". Con oggetti di scena e sculture; palchi e piedistalli; attori, imitatori e avatar; così come l'immagine spettrale del pubblico stesso, Fictions of Display esplora i temi intrecciati di teatro, performance ed esposizione nella collezione permanente del MOCA, mettendo in primo piano strategie e modalità di presentazione che permeano gli spazi museali.

Al centro di questa mostra ci sono opere tratte dal progetto immersivo e performativo di Oldenburg, The Store (1961-62), in cui realizzava e vendeva riproduzioni di beni di consumo quotidiani. Queste opere aprono la strada a un'esplorazione più ampia di come gli oggetti non siano solo esposti, ma anche messi in scena e fatti circolare. 


Mostra Fictions of Display @ MOCA, foto di Jeff McLane

Oltre a questi oggetti noti, Fictions of Display include una selezione di documenti tratti dalle carte di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen, gentilmente concessi in prestito dal Getty Research Institute.

Fictions of Display presenta anche diverse nuove acquisizioni, così come opere mai esposte nelle gallerie del MOCA, come il dipinto del rivoluzionario regista teatrale polacco Tadeusz Kantor, noto per il suo approccio avanguardistico e profondamente personale alla performance, e la videoinstallazione di Catherine Sullivan, che fonde teatro, cinema e arte visiva per esaminare i sistemi di recitazione e rappresentazione. Un elemento dal vivo è sottilmente intrecciato nell'esperienza della galleria: per " Portrait of an Unknown Person Passing By" di Tania Pérez Córdova , un performer circola silenziosamente tra i visitatori a orari non annunciati, vestito con un abito che riprende il motivo di un oggetto in ceramica esposto.


Mostra Fictions of Display @ MOCA, foto di Jeff McLane

Artisti in primo piano: Eleanor Antin, ASCO, Ana Barrado, Math Bass, Joseph Beuys, Mark Bradford, Brassaï, Nancy Brooks Brody, Colette, Fiona Connor, Tania Pérez Córdova, Guy de Cointet, Raúl De Nieves, Lukas Duwenhögger, Thomas Eggerer, Victor Estrada, VALIE EXPORT, Ali Eyal, Peter Fischli, Dan Flavin, Robert Gober, Guillermo Gómez-Peña, Félix González-Torres, Joe Goode, Dan Graham, Yaron Michael Hakim, Lyle Ashton Harris, Evan Holloway, Christian Holstad, Rebecca Horn, Roni Horn, Donald Judd, Brian Jungen, Tadeusz Kantor, Mike Kelley, Toba Khedoori, Martin Kippenberger, Terence Koh, Louise Lawler, An-My Lê, William Leavitt, Charles LeDray, Nikki S.Lee, Sherrie Levine, Los Carpinteros, Paul McCarthy, Steve McQueen, Ana Mendieta, Raphael Montañez Ortiz, Senga Nengudi, Kayode Ojo, Claes Oldenburg, Yoko Ono, Silke Otto-Knapp, Roxy Paine, Giuseppe Penone, Sondra Perry, Julia Phillips, Sigmar Polke, Monique Prieto, Reynaldo Rivera, Beverly Semmes, Cindy Sherman, Hiroshi Sugimoto, Catherine Sullivan, Atsuko Tanaka, Wolfgang Tillmans, Cosima von Bonin, Marnie Weber, Johanna Went, Pae White, Hannah Wilke.

Fictions of Display è organizzato da José Luis Blondet, curatore senior, con Paula Kroll, assistente curatoriale.

Le mostre al MOCA sono supportate dal MOCA Fund for Exhibitions, con finanziamenti importanti forniti da Tatiana Botton, The Goodman Family Foundation, Alfred E. Mann Charities e Alicia Miñana e Robert Lovelace. Un generoso contributo è fornito da Michael e Zelene Fowler, The Earl and Shirley Greif Foundation, Pamela e Jarl Mohn, Jonathan Segal, Carl and Ruth Shapiro Family Foundation e Pamela West.

13/11/25

Luci d’Artista - 28esima edizione


Joseph Kosuth Doppio Passaggio Torino foto di Carla Ciampoli Courtesy FIAF

Già da diversi giorni Torino brilla trasformando il cielo della città in un grande palcoscenico di luce, grazie allo storico progetto delle "Luci d'artista" 

Quest'anno con 32 installazioni luminose, arricchite da ben quattro nuove opere firmate da grandi protagonisti della scena artistica: Tracey Emin, il collettivo Soundwalk Collective insieme alla poetessa e musicista Patti Smith e al compositore Philip Glass, Riccardo Previdi e Gintaras Didžiapetris. Saranno coinvolti nuovi spazi della città che entreranno a far parte della mappa luminosa di Luci d’Artista, confermando la vocazione della manifestazione a rinnovarsi e a estendere la propria presenza nel tessuto urbano di Torino.

Le Luci d’Artista della 28° edizione resteranno accese fino all’11 gennaio 2026 e in questi mesi piazze, monumenti e luoghi simbolo della città dialogheranno con l’arte contemporanea, trasformando Torino in un museo dove la protagonista è la luce.

Tra le nuove installazioni luminose, due portano la firma della Fondazione CRT, da sempre al fianco di Luci d’Artista: la prestigiosa opera al neon di Tracey Emin, Sex and Solitude, donata alla Città di Torino dalla Fondazione Arte CRT, e il progetto speciale delle OGR Torino, Mummer Love, che animerà il monumentale cortile con un’opera dei Soundwalk Collective insieme a Patti Smith e Philip Glass.

Luci d’Artista accoglie infatti tra i suoi protagonisti un’icona dell’arte contemporanea internazionale: la britannica Tracey Emin. Si tratta della prima e unica opera pubblica in Italia dell’artista. Un ingresso reso possibile proprio grazie alla Fondazione Arte CRT che per celebrare il suo venticinquesimo anniversario ha deciso di donare alla Città una prestigiosa opera al neon dal titolo Sex and Solitude, collocata nei Giardini Reali bassi, firmata da una delle figure più acclamate al mondo, autrice, tra i molti linguaggi praticati, di celebri creazioni luminose.


Un neon di 106 x 804 cm che riproduce la grafia inconfondibile dell’artista, sarà allestita ai Giardini Reali, divenendo parte del patrimonio luminoso della città. Realizzata originariamente per l’omonima mostra a Palazzo Strozzi, l'opera racchiude i due poli centrali della ricerca di Emin – la sessualità (sex) e la vulnerabilità (solitude) – restituendo, attraverso la luce, l’intensità emotiva e la tensione poetica che caratterizzano il suo lavoro. Per la prima volta in Italia, un’opera di Tracey Emin verrà allestita in uno spazio pubblico ed entrerà a far parte di una collezione permanente (quella di Luci d'Artista).


Tracey Emin,  Sex and Solitude, Ph. Andrea Guermani


Da oltre trent'anni, Tracey Emin impiega il neon come mezzo espressivo fondamentale nella sua arte. Ogni sua creazione nasce da un'ispirazione profonda: un messaggio, un pensiero o un'emozione. La sua prima opera realizzata con questo materiale risale al 1995.

Il suo legame con il neon affonda le radici nella sua infanzia trascorsa a Margate, situata sull'Isola di Thanet, nel Kent, affacciata sul Mare del Nord, in cui le insegne luminose erano un elemento abituale del paesaggio costiero. L'artista trae ispirazione proprio da questi ricordi giovanili, evocati dalla luce vibrante e scintillante delle insegne.

A differenza di molti artisti che, a partire dagli anni Sessanta, hanno utilizzato il neon con caratteri standard e frasi distaccate, Tracey Emin adotta un approccio radicalmente diverso, distinguendosi per l'uso della propria calligrafia, abbinata a frasi brevi, intense e profondamente personali. Le sue scritte, spesso incisive e dirette, esplorano temi come la fragilità dell'amore e l'esistenza umana.


L'artista ritiene che il neon abbia la straordinaria capacità di suscitare sentimenti. Come ha affermato lei stessa: «Il neon è emozionale per tutti. I gas neon e argon ci fanno sentire qualcosa di positivo, ed è per questo che li troviamo nei luna park, nei casinò, nei quartieri a luci rosse e nei bar. Il neon può persino aiutare chi soffre di depressione».

Nelle sue installazioni al neon, Emin condensa poesia, mistero, colore e luce, rendendo ogni opera un'intima sintesi della sua persona.

12/11/25

Renée Green "The Equator Has Moved" al Dia

 

Renée Green: The Equator Has Moved, installation view, Dia Beacon, New York, 2025–26. © Renée Green and Free Agent Media. Photo: Bill Jacobson Studio, New York

In questo periodo fra le tante proposte del Dia c'è  quella sul lavoro di Renée Green "The Equator Has Moved".

La prima importante personale dell'artista multidisciplinare in un museo a New York. Dalla fine degli anni '80, Green ha prodotto opere dense e stratificate, basate sulla conoscenza, che adattano le strategie dell'arte minimalista e concettuale degli anni '60 e '70. Nel suo processo ricorsivo unico, Green giustappone una gamma di materiali – frammenti d'archivio, documentari e letterari; effimeri personali e trovati; narrazioni speculative; e le sue opere esistenti – per sondare i confini instabili tra realtà e finzione, ricordo pubblico e memoria personale.

Costellando opere storiche, riconfigurate e di nuova commissione nel nesso tra la planimetria del Dia Beacon, le due ampie gallerie centrali e il corridoio perpendicolare, questa presentazione cronologicamente provocatoria mette in scena opportunamente la pratica dell'artista in contatto e nel contesto con figure influenti chiave per la storia del Dia e la formazione di Green. Installazioni multimediali fondamentali che riconsiderano criticamente i generi storico-artistici di site art, landscape art e land art tornano in mostra negli Stati Uniti per la prima volta in oltre tre decenni. Riunita nella sua interezza al Dia, la serie Color di Green dei primi anni Novanta esamina come il colore funzioni come strumento di categorizzazione; un sistema di valori arbitrario e socialmente codificato; e un efficace dispositivo percettivo e spaziale per l'immaginazione poetica dell'artista. Coinvolgendo sia le pareti che il soffitto, Green sospende una nuova serie di vivaci striscioni testuali, o Poesie Spaziali , lungo l'estensione lineare dei corridoi, completata da una nuova serie di varianti in smalto montate a parete. Analogamente, nuove configurazioni ibride dei Bichos dell'artista – unità geometriche modulari multicolori da guardare e ascoltare – saranno distribuite nelle gallerie, funzionando come architetture mediatiche provvisorie che presentano selezioni dal compendio di opere di immagini in movimento e sonore di Green.


Renée Green: The Equator Has Moved, installation view, Dia Beacon, New York, 2025–26. © Renée Green and Free Agent Media. Photo: Bill Jacobson Studio, New York


Renée Green: The Equator Has Moved è curata da Jordan Carter, curatore e co-responsabile del dipartimento, con Ella den Elzen, assistente curatoriale.

Renée Green: The Equator Has Moved è resa possibile grazie al significativo supporto della Teiger Foundation e della Terra Foundation for American Art. Significativo anche il supporto della Andy Warhol Foundation, della Every Page Foundation e del Girlfriend Fund. Generoso il supporto della Jacques and Natasha Gelman Foundation e del National Endowment for the Arts. Ulteriore supporto da parte di Philip E. Aarons e Shelley Fox Aarons, Miyoung Lee e Neil Simpkins e della David Schwartz Foundation, Inc.

Tutte le mostre al Dia sono rese possibili dall'Economou Exhibition Fund.

11/11/25

Sixties Surreal


Veduta dell'installazione di Sixties Surreal (Whitney Museum of American Art, New York, 24 settembre 2025-19 gennaio 2026). Da sinistra a destra: James Rosenquist, The Light That Won't Fail I , 1961; Alex Hay, Paper Bag , 1968; Paul Thek, Senza titolo , 1966; Joseph Raffael, Man, Boy, Doe , c. 1967; Claes Oldenburg, Soft Toilet , 1966; Gunvor Nelson e Dorothy Wiley, SCHMEERGUNTZ , 1965. Opere d'arte © 2025 James Rosenquist Foundation / Concesso in licenza da Artists Rights Society (ARS), NY; © Alex Hay; © Estate of Paul Thek; © The Estate of Joseph Raffael; © Claes Oldenburg; Per gentile concessione di Filmform e degli artisti. Fotografia di Ron Amstutz, immagine digitale © Whitney Museum of American Art


Il Whitney Museum di New York ha in corso la mostra  "Sixties Surreal" una interessante rivisitazione dell'arte americana dal 1958 al 1972, che comprende le opere di oltre 100 artisti. Questa rassegna revisionista guarda oltre i movimenti ormai canonici per concentrarsi invece sulla corrente estetica più fondamentale, seppur poco riconosciuta, dell'epoca: un'efflorescenza di tendenze psicosessuali, fantastiche e rivoluzionarie, sostenuta dall'impronta del Surrealismo storico e dalla sua ampia diffusione.  

Sixties Surreal  ricontestualizza alcune delle figure più note del decennio, accanto ad altre riscoperte solo di recente. La mostra raccoglie una serie di opere di artisti tra cui Diane Arbus , Lee Bontecou , ​​Franklin Williams , Nancy Grossman , David Hammons , Linda Lomahaftewa, Mel Casas , Yayoi Kusama , Romare Bearden e Louise Bourgeois , tra gli altri. Negli anni '60, molti di questi artisti cercarono nuove strategie per riconnettere l'arte a una realtà vissuta che sembrava sempre più irreale a causa della rapida trasformazione del dopoguerra e degli sconvolgimenti sociali, politici e tecnologici della seconda parte del decennio.


Veduta dell'installazione Sixties Surreal (Whitney Museum of American Art, New York, 24 settembre 2025-19 gennaio 2026). Da sinistra a destra: Daniel LaRue Johnson, Freedom Now, Number 1 , 1963-64; Benny Andrews, No More Games , 1970; Luis Jimenez, Man on Fire , 1969-70; Jasper Johns, Flags , 1965; Harold Stevenson, The New Adam , 1962; Ralph Arnold, Unfinished Collage , 1968; Mel Casas, Humanscape #56 (San Antonio Circus) , 1969; TC Cannon, “Andrew Myrick - Let Em Eat Grass” , 1970; Nancy Spero, Female Bomb , 1966; Fritz Scholder, Indian and Rhinoceros , 1968; Judith Bernstein, Vietnam Garden , 1967; Barbara Jones-Hogu, Mother of Man , 1968; Kay Brown, The Devil and His Game , 1970. Opere d'arte © Daniel LaRue Johnson; © 2025 Estate of Benny Andrews / Concesso in licenza da VAGA presso Artists Rights Society (ARS), NY, per gentile concessione di Michael Rosenfeld Gallery, LLC, New York, NY; © 2025 Luis Jimenez / Artists Rights Society (ARS), New York; © 2025 Jasper Johns / Concesso in licenza da VAGA presso Artists Rights Society (ARS), New York; © Harold Stevenson; © Ralph Arnold; © The Mel Casas Family Trust; © US Department of the Interior, Indian Arts and Crafts Board; © 2025 Nancy Spero / Artists Rights Society (ARS), New York; © Fritz Scholder; © Judith Bernstein; © The Estate of Barbara Jones-Hogu; © Estate of Kay Brown. Fotografia di Ron Amstutz, immagine digitale © Whitney Museum of American Art


Al Whitney, Sixties Surreal si concentrerà sui modi in cui il Surrealismo storico dei primi anni del XX secolo gettò le basi per una sorta di Surrealismo vernacolare negli anni '60, in particolare in America, dove i cambiamenti sociali e politici a cascata affermarono che la vita stessa è surreale. Il modo in cui gli artisti attivi in ​​tutto il paese – da New York e Filadelfia, a Chicago, Houston, Los Angeles e la Bay Area – hanno contemplato e reimmaginato questa realtà sarà tra le preoccupazioni centrali della mostra, rispecchiando al contempo gli estremi sociopolitici in cui gli artisti del presente si trovano a operare. Il titolo della mostra, Sixties Surreal , ne definisce i parametri storici essenziali, suggerendo al contempo una nuova interpretazione di quella storia.

Sixties Surreal è organizzata da Dan Nadel, Steven e Ann Ames, curatori di disegni e stampe del Whitney Museum of American Art; Laura Phipps, curatrice associata del Whitney Museum of American Art; Scott Rothkopf, direttore di Alice Pratt Brown del Whitney Museum of American Art; ed Elisabeth Sussman, curatrice del Whitney Museum of American Art, con Kelly Long, assistente curatoriale senior, e Rowan Diaz-Toth, assistente curatoriale di progetto del Whitney Museum of American Art.


Veduta dell'installazione Sixties Surreal (Whitney Museum of American Art, New York, 24 settembre 2025-19 gennaio 2026). Da sinistra a destra: Lee Lozano, No Title , 1964; James Rosenquist, The Light That Won't Fail I , 1961; Alex Hay, Paper Bag , 1968; Paul Thek, Untitled , 1966; Joseph Raffael, Man, Boy, Doe , c. 1967; Claes Oldenburg, Soft Toilet , 1966; Gunvor Nelson e Dorothy Wiley, SCHMEERGUNTZ , 1965; Vija Celmins, House #1 , 1965; Ed Ruscha, Give Him Anything and He'll Sign It , 1965; Karl Wirsum, Gargoyle Gargle Oil , c. 1969; Martha Rosler, Cucina I, o Carne Calda , c. 1966-72; Martha Rosler, Carne Umida , c. 1966-72; Karl Wirsum, Screamin' Jay Hawkins , 1968. Opere d'arte © Estate of Lee Lozano; © 2025 James Rosenquist Foundation / Concesso in licenza da Artists Rights Society (ARS), NY; © Alex Hay; © Estate of Paul Thek; © The Estate of Joseph Raffael; © Claes Oldenburg; Per gentile concessione di Filmform e degli artisti; © Vija Celmins; © Ed Ruscha; © The Estate of Karl Wirsum; © Martha Rosler, per gentile concessione della Galerie Lelong, New York. Fotografia di Ron Amstutz, immagine digitale © Whitney Museum of American Art



Sixties Surreal è sponsorizzato da Delta

Un importante sostegno a Sixties Surreal  è fornito dal Barbara Haskell American Fellows Legacy Fund, dalla KHR McNeely Family Foundation | Kevin, Rosemary e Hannah Rose McNeely e dal Whitney's National Committee.

Un supporto significativo è fornito da Susan Boland e Kelly Granat e dalla John R. Eckel, Jr. Foundation.

Un generoso supporto è offerto da Sheree e Jerry Friedman, dal Keith Haring Foundation Exhibition Fund, da Ashley Leeds e Christopher Harland e dalla Robert Lehman Foundation.
Ulteriore supporto è fornito da Martin e Rebecca Eisenberg, George Freeman, Gail e Tony Ganz, Patricia J. Villareal e Thomas S. Leatherbury.  

10/11/25

Marc Chagall a Ferrara




In questi tempi così movimentanti e spesso dolorosi una ventata di gioia e bellezza è un bel rifugio, e questo può essere in questi giorni a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dove fino all’8 febbraio 2026 è in corso una stupenda mostra su Marc Chagall, testimone del suo tempo, con un percorso espositivo di sorprendente intensità emotiva che invita il pubblico a immergersi nell’universo poetico di uno dei più importanti e amati maestri dell’arte del Novecento.
 
Un viaggio straordinario che rivela come Marc Chagall (Vitebsk, 1887 – Saint–Paul de Vence, 1985), universalmente noto per le figure fluttuanti e le colorate atmosfere incantate, abbia saputo mantenere viva la memoria della sua terra natale, della tradizione e degli affetti, proiettandoli sempre verso nuovi orizzonti espressivi.
 



Attraverso 200 opere – tra dipinti, disegni, incisioni, alcuni dei quali presentati per la prima volta in Italia, e sale immersive che consentono di ammirare due sue creazioni monumentali in una dimensione coinvolgente e spettacolare (il soffitto dell'Opéra di Parigi e le 12 vetrate per la sinagoga di Hadassah) – la mostra evidenzia la profonda umanità di un artista plurale, visionario e testimone del suo tempo, cantore della bellezza e custode della memoria. Volti scissi, profili che si moltiplicano, ritratti che si specchiano: attraverso il tema del doppio egli rivela la sua straordinaria capacità di cogliere la dualità dell’esistenza umana. E ancora amanti volanti, animali parlanti, bouquet esplosivi, diventano, trascendendo il visibile, metafore universali. Attraverso il suo sguardo poetico, Chagall trasforma l’esperienza personale in riflessione condivisa, svelando come dietro l’apparente semplicità delle sue creazioni si celino temi che toccano ogni essere umano: l’identità, l’esilio, la spiritualità e la gioia di vivere.
 
In un’epoca di frammentazione, egli ci ricorda che l’arte può essere ponte tra mondi diversi, sintesi di tradizioni apparentemente inconciliabili, specchio fedele delle aspirazioni e delle contraddizioni dell’umanità. La sua opera celebra quella verità emotiva che rende tangibili i sentimenti più profondi dell’animo umano, elevando lo spirito verso una bellezza capace di trovare, anche negli orrori del tempo, barlumi di pace e comprensione.
 



La mostra è prodotta e organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e Arthemisia, in collaborazione con il Servizio Cultura, Turismo e rapporti con l’Unesco del Comune di Ferrara, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, da una idea di Paul Schneiter e a cura di Francesca Villanti con Paul Schneiter.

La mostra vede come special partner Ricola, mobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale e conta sul supporto di Copma.

08/11/25

Lucio Fontana ceramista da Peggy Guggenheim


fotografie © Mani-Fattura: le ceramiche di Lucio Fontana, 11.10.2025 – 02.03.2026, Collezione Peggy Guggenheim. Ph. Claudia Corrent

A volte quello che pare un'artista minimale si rivela, con una tecnica diversa, elaborato artefice di forme e colori. Sicuramente questo è il caso di Lucio Fontana noto per le sue opere apparentemente semplici e formali. Ma quando si esprime con la ceramica si scopre un fastastico ideatore di forme e stratificazioni cromatiche. Questo ci palesa la stupenda mostra "Mani-Fattura: le ceramiche di Lucio Fontana" curata da Sharon Hecker, storica dell’arte, allestita negli spazi espositivi della Collezione Peggy Guggenheim fino al 2 marzo, 2026.
 
Nel giorno di apertura la direttrice Karole P. B. Vail ha sottolineato l’importanza di questo omaggio a Lucio Fontana, tra gli artisti più innovativi e irriverenti del XX secolo. "Si tratta della prima mostra museale interamente dedicata alla produzione ceramica di Lucio Fontana", ha affermato Vail, proseguendo: "Come suggerisce il titolo stesso, attraverso una sorprendente varietà di lavori, circa settanta, la mostra offre un approfondimento inedito sul rapporto vitale dell’artista con la creta, materiale che accompagnò il suo percorso creativo per tutto l’arco della vita. Già nel 2006 il museo ha reso omaggio all’artista con la mostra Lucio Fontana. Venice/New York, curata da Luca Massimo Barbero. Oggi torniamo ad ospitare una monografica dedicata a Fontana, ma che ne esplora un lato assolutamente meno conosciuto, ovvero il suo rapporto con la ceramica".
 
"Questa mostra svela un lato più intimo e tattile di Fontana, nato da un legame profondo e duraturo con una materia umile come l'argilla, un lato che va oltre la figura iconica ed eroica conosciuta per i suoi tagli e i gesti audaci", ha poi proseguito la curatrice Hecker. "Ripercorrendo l'approccio diretto dell'artista alla ceramica, l’esposizione restituisce a questo medium il ruolo che gli spetta accanto al marmo e al bronzo, riconoscendone la forza espressiva e il valore artistico. Celebra non solo il rapporto di Fontana con i rituali del lavoro con la creta, ma anche le straordinarie potenzialità di questo materiale come strumento di sperimentazione e di libertà creativa. Mi auguro che la mostra sappia sorprendere il pubblico e offrire una nuova prospettiva su un artista dall'inesauribile capacità d’innovazione".
 
Con circa settanta opere, alcune delle quali mai esposte prima, provenienti da note collezioni pubbliche e private, la mostra intende far luce sulla portata della visione scultorea di Fontana attraverso un materiale come la creta, rivelando come abbia rappresentato, nel corso degli anni, un terreno di sperimentazione ricco e produttivo. La sua produzione ceramica si distingue per la varietà di forme, tecniche e soggetti: dalle opere figurative che rappresentano donne, animali marini, arlecchini e guerrieri, fino alle sculture astratte, il suo approccio all’argilla recupera i rituali antichi imposti dalla materia, sui quali interviene in modi innovativi. La sua pratica ceramica si sviluppa nell’arco di decenni e in contesti molto diversi: dal primo periodo in Argentina al ritorno in Italia all’epoca del Fascismo, seguito da un ulteriore lungo soggiorno in Argentina durante la guerra e da un nuovo rientro, nel dopoguerra, nell’Italia della ricostruzione e del boom economico. Fontana realizzò anche oggetti per interni privati, dai piatti ai crocifissi, caminetti e maniglie, spesso in collaborazione con importanti designer. Con rinomati architetti milanesi creò fregi ceramici per facciate di edifici e sculture per chiese, scuole, cinema, hotel, circoli sportivi e tombe che ancora oggi ornano la città. In mostra sono presenti sia pezzi unici realizzati a mano che oggetti prodotti in serie, alcuni dei quali sfumano i confini tra le due categorie. 
 

L’esposizione ripercorre la produzione ceramica di Fontana, toccando due continenti e quattro decenni cruciali, e intrecciando cronologia e temi scultorei in un racconto inedito e dinamico. La sua produzione proteiforme spazia dalle sculture figurative a forme radicalmente astratte, specchio dei diversi contesti storici, sociali, politici e geografici in cui Fontana visse e operò. Il percorso espositivo prende avvio da un’opera realizzata al suo ritorno in Argentina nel 1926, Ballerina di Charleston, dopo il trauma della Prima guerra mondiale combattuta da giovane insieme agli altri “ragazzi del ’99”. Da qui si prosegue nell’Italia del periodo fascista, dove, nei primi anni trenta, l’artista crea piccole terrecotte intime, non smaltate e con leggeri tocchi di colore, come Ritratto di bambina (1931) o Busto femminile (1931), per poi approdare alla stagione degli straordinari esperimenti con gli smalti, resa possibile grazie alla collaborazione con gli artigiani di Albisola. A questo periodo appartengono opere affascinanti quali Coccodrillo (1936-37), Medusa (1938-39), Donna seduta (1938) e il maestoso Torso Italico (1938). Durante la Seconda guerra mondiale Fontana torna nuovamente in Argentina, dove continua a lavorare la ceramica, per poi rientrare ancora una volta nell’Italia del dopoguerra. Qui, la ricostruzione del Paese e il boom economico si intrecciarono con la sua produzione ceramica che si espande, iniziando un proficuo dialogo con il mondo del design. Fontana realizza piatti, crocifissi, forme astratte, tutte opere che indagano le origini stesse dell’antica pratica della ceramica. Una sala è poi dedicata ai ritratti più personali delle figure femminili che fecero parte della sua vita, testimonianza dell’intima relazione che Fontana ebbe tanto con le donne da lui ritratte – dalla moglie Teresita Rasini, alla scrittrice e intellettuale Milena Milani, unica donna firmataria del Manifesto dello Spazialismo, alla ceramista Esa Mazzotti – quanto con la materia. La mostra mette in risalto la forza materica della creta, liscia, ruvida, incisa, grezza, dipinta, smaltata, tagliata, bucata, e l’innovativa capacità di Fontana di intrecciare i linguaggi dell’arte e dell’artigianato, del design e della manualità. Non mancano fotografie d’archivio che ritraggono Fontana al lavoro, testimonianza di un artista collaborativo, profondamente in sintonia con materiali, processi, persone e luoghi.
 
Ad accompagnare l’esposizione, un cortometraggio inedito, Le ceramiche di Lucio Fontana a Milano, appositamente commissionato e realizzato dal regista argentino Felipe Sanguinetti. Concepito come parte integrante del percorso espositivo, il film conduce il pubblico in un viaggio cinematografico attraverso diversi luoghi della città di Milano, dal Cimitero Monumentale all’Istituto Gonzaga, Fondazione Prada, Villa Borsani, Chiesa di San Fedele, Museo Diocesano, per raccontare le opere ceramiche che Fontana realizza grazie alla collaborazione con importanti architetti italiani, tra cui Osvaldo Borsani, Roberto Menghi, Mario Righini, Marco Zanuso. Tutti interventi site-specific, integrati nel tessuto architettonico e urbano della città, che non hanno potuto essere fisicamente trasportati nelle sale museali, ma che rivivono grazie alle immagini potenti e affascinanti di questo film, fruibile negli spazi antistanti la mostra. 
 

Mani-Fattura: le ceramiche di Lucio Fontana invita il pubblico a riconsiderare Fontana non solo come pioniere dello Spazialismo e dell’arte concettuale, ma come scultore, un artista profondamente legato alla materia, attento al potenziale tattile ed espressivo della creta. La mostra vuole inoltre sollevare nuove questioni di ordine storico, materiale e tecnico sulla sua pratica ceramica, che un critico dell’epoca definì come la sua “altra metà” e “seconda anima”. In contrasto con l’immagine consolidata di Fontana come figura ipermaschile ed eroica che taglia le sue tele con un cutter, l’esposizione rivela un lato più informale, profondo e collaborativo dell’artista, radicato nella fisicità morbida dell’argilla e plasmato da relazioni durature, come quella con il ceramista e poeta Tullio d’Albisola e la manifattura ceramica Mazzotti di Albisola. Come afferma la curatrice: “L’argilla emerge come un contenitore di sperimentazione vitale, di molteplicità e fertilità”.
 
La mostra è accompagnata da un catalogo illustrato, pubblicato da Marsilio Arte, che include nuovi saggi critici della curatrice Hecker, e di Raffaele Bedarida, Luca Bochicchio, Elena Dellapiana, Aja Martin, Paolo Scrivano, Yasuko Tsuchikane, tutti dedicati alla pratica ceramica di Fontana e ai suoi contesti storici, sociali e culturali. 
  
Completa l’esposizione un articolato programma di attività collaterali gratuite, volte ad approfondire e interpretare la pratica e il linguaggio visivo dell’artista, realizzate grazie alla Fondazione Araldi Guinetti, Vaduz. 
 
Mani-Fattura: le ceramiche di Lucio Fontana è sostenuta da Bottega Veneta.

07/11/25

The Art Market 2025


Eccolo a questo link https://theartmarket.artbasel.com/  l'annuale report sull'arte globale proposto da ArtBasel e UBS.

A Leggerlo pare che tutto nel complesso vada migliorando, purtroppo qui dalle mie parti però vedo sempre più che i giovani stanno cambiando l'approccio all'arte, che nessuno compra arte e che le gallerie chiudono, ma forse siamo su quel territorio che è in declino ... 


CS

Per fornire approfondimenti sulle attività e gli atteggiamenti dei collezionisti, l'indagine Art Basel and UBS Survey of Global Collecting 2025, redatta da Clare McAndrew di Arts Economics, presenta i risultati di una ricerca condotta a metà del 2025 su individui con un patrimonio netto elevato (HNWI) attualmente attivi nel mercato dell'arte. Il rapporto esamina i modelli di spesa e gli interessi dei collezionisti di diversi mercati in tutto il mondo, nonché le loro opinioni sul mercato dell'arte nel 2025 e oltre.

Questo sondaggio è il dodicesimo di una serie condotta in collaborazione con Arts Economics e UBS e copre 10 mercati, con risposte da 3.100 HNWI, e rimane uno dei più grandi sondaggi sui collezionisti ad alto patrimonio netto a livello mondiale.

06/11/25

ARTis - festival dell'arte

 


Arriva un nuovo festival dedicato all'arte, si tratta di ARTis e si svolgerà a Vicenza dal 10 al 16 Novembre, in diverse location della città.

CS

ARTis, Festival dell’Arte

L’Italia possiede uno straordinario patrimonio artistico e architettonico, ma l’arte non è tra i primi interessi dei suoi abitanti. Siamo immersi nell’arte e quasi non ce ne accorgiamo. Ma l’arte non è solo il passato, è anche e soprattutto il presente e il futuro, è contemporanea.
E allora perché non pensare a un luogo in cui l’arte si racconta e viene vissuta da tutti come un patrimonio condiviso, vivo, pulsante?

ARTis, primo festival dedicato all’arte, nasce nella città di Vicenza con una vocazione al dialogo e allo scambio sottolineata già nel suo nome: la “is” di ARTis enfatizza l’obiettivo di definire, con la partecipazione dell’artista e del pubblico, l’arte contemporanea in tutte le sue declinazioni. Inoltre, ARTis lascia volutamente in sospeso la “t” finale di Artist, rivolgendo così al pubblico l’invito a completare la parola, attraverso gli stimoli proposti durante gli incontri del Festival.

Per capire cos’è ARTis occorre partire da cosa NON è: non è una fiera, né una mostra, non si vende né si espone arte. Non è una conferenza per addetti ai lavori, un incontro a numero chiuso. ARTis è un momento di apertura, di curiosità, un’occasione per incontrare l’artista, per dialogare con l’esperto, per rispondere a domande che tutti ci siamo posti: cosa fa un’artista, come vive, di cosa vive, quando diventa “grande”, come lo diventa, e per chi? Qual è il lavoro in studio, la preparazione, l’intenzione, il pensiero dell’artista contemporanea? Come si manifesta?

“Non vi è arte senza artista”, è il claim della prima edizione del Festival. Un invito a scoprire chi è l’artista oggi, in un mondo in cui l’arte affronta temi complessi come politica, economia e questioni ambientali.

Per le edizioni future ARTis continuerà a esplorare molti altri aspetti legati al mestiere dell’artista: dal collezionismo, alla committenza, al ruolo dei musei, delle gallerie, dei curatori, della scienza, svelando i lati meno noti delle professioni dell’arte e facendo necessariamente riferimento al passato che ha dato tanto a ogni artista: l’eredità artistica è infatti fonte continua di idee e innovazione.

05/11/25

Jean Dubuffet e l'Hourloupe




A Parigi la galleria Opera propone una interessante mostra dal titolo  "Jean Dubuffet: L'Hourloupe et son sillage (1962–1982)",  dedicata a una delle figure più influenti dell'arte del XX secolo. In concomitanza con la Paris Art Week 2025 e in occasione del 40° anniversario della scomparsa di Dubuffet, la mostra esplora la genesi, l'apice e l'eredità del radicale ciclo L'Hourloupe di Dubuffet e il suo impatto duraturo sull'arte moderna e contemporanea.
 



Il ciclo di L'Hourloupe

Nel luglio del 1962, durante una conversazione telefonica informale, Jean Dubuffet iniziò a scarabocchiare con una penna a sfera. Da questo gesto apparentemente banale nacque  L'Hourloupe , un sistema visivo rivoluzionario che lo avrebbe impegnato per oltre un decennio (1962-1974). Caratterizzato da toni piatti rossi e blu, vuoti bianchi e spessi contorni neri, questo linguaggio grafico distintivo decostruì la realtà per costruire un universo alternativo di forme cellulari, figure ambigue e paesaggi onirici.

Più che una serie,  L'Hourloupe si estese attraverso pittura, scultura, performance, letteratura e persino architettura. Il suo culmine fu  Coucou Bazar  (1971-1974), la celebre "pittura animata" di Dubuffet che fondeva pittura, costumi, coreografia e suono in un'opera d'arte totale e immersiva.
 

Da L'Hourloupe alla sua eredità (1962-1982)

La mostra presenta opere che coprono un arco temporale di 20 anni, ripercorrendo la metamorfosi di L'Hourloupe nelle serie successive, tra cui  Coucou Bazar, Sites tricolores, Théâtres de mémoire, Psycho-sites  e  Sites aléatoires . Tra i pezzi forti , Échec à l'être (1971), un monumentale ritaglio dipinto da  Coucou Bazar , eseguito per la prima volta al Museo Guggenheim nel 1973, e Site au Défunt (1982), un collage dai  Sites aléatoires , in cui figure e paesaggi si fondono in composizioni casuali e cariche di emozioni.

Insieme, queste opere dimostrano come il linguaggio di Dubuffet si sia evoluto pur rimanendo radicato nella sua ricerca di liberare l'arte dalle convenzioni e creare una forma di espressione universale.
 



Jean Dubuffet: un visionario dell'arte del dopoguerra

Nato a Le Havre nel 1901, Jean Dubuffet è celebrato come il fondatore dell'Art Brut. Rifiutando le tradizioni accademiche, abbracciò materiali grezzi e non raffinati e trasse ispirazione dall'arte outsider, dai bambini e dai pazienti psichiatrici. La sua sperimentazione radicale ha influenzato generazioni di artisti e continua a risuonare nelle pratiche artistiche contemporanee odierne.

04/11/25

Minimal Bourse




Fino al 19 Gennaio 2026 la Bourse de Commerce ospita una grande mostra dedicata all'arte minimalista, con oltre cento opere di grande rilievo che illustrano la diversità di questo movimento a partire dagli anni '60, quando un'intera generazione di artisti ha avviato un approccio radicale all'arte. Accanto ai capolavori della Collezione Pinault, prestiti provenienti da prestigiose collezioni evidenziano l'importanza storica e la risonanza internazionale dei temi affrontati. La mostra "Minimal" esplora l'evoluzione globale e internazionale di questo movimento che, a partire dai primi anni Sessanta, ha radicalmente riconsiderato lo status dell'opera d'arte.




Caratterizzata da un'economia di mezzi, un'estetica raffinata e una riconsiderazione della posizione dell'opera in relazione allo spettatore, un'intera generazione di artisti in tutto il mondo ha avviato questo approccio che invita all'interazione corporea. Nacque così il "minimal", una forma d'arte che cercava di rivolgersi direttamente allo spettatore attraverso la presentazione di materiali e forme universali, senza ricorrere all'imitazione, al simbolismo o alla narrazione. Questi artisti si appropriarono quindi di materiali naturali o artificiali – spesso i più semplici e accessibili – per creare situazioni in cui il corpo del visitatore veniva sollecitato direttamente, attirando inoltre l'attenzione sul luogo stesso della mostra. L'opera non si situa più tanto a livello del suo contenuto quanto nell'esperienza concreta che offre. 

Attraverso sette sezioni tematiche – Luce, Mono-ha, Equilibrio, Superficie, Griglia, Monocromo, Materialismo – la mostra “Minimal” ripercorre la diversità di questo movimento, esplorandone le dimensioni nordamericana (Agnes Martin, Dan Flavin, Robert Ryman, ecc.), sudamericana (Lygia Pape), asiatica (Lee Ufan, Nobuo Sekine, Kishio Suga, ecc.), mediorientale (Rasheed Araeen) ed europea (Gunther Uecker, François Morellet, ecc.), basandosi su un'eccezionale collezione di opere della Pinault Collection e prestiti della Dia Art Foundation e di altre collezioni private e pubbliche.




Opere di : Rasheed Araeen / McArthur Binion / Chryssa / Mary Corse / Walter De Maria / Melvin Edwards / Koji Enokura / Dan Flavin / Felix Gonzalez-Torres / Hans Haacke / Maren Hassinger / Mary Heilmann / Eva Hesse / Nancy Holt / Robert Irwin / Donald Judd / On Kawara / Susumu Koshimizu / David Lamelas / Seung-Taek Lee / Lee Ufan / Sol LeWitt / Francesco Lo Savio / Bernd Lohaus / Brice Marden / Enzo Mari / Agnes Martin / François Morellet / Senga Nengudi / Helio Oiticica / Pauline Oliveros / Blinky Palermo / Lygia Pape / Howardena Pindell / Charlotte Posenenske / Steve Reich / Bridget Riley / Dorothea Rockburne / Robert Ryman / Nobuo Sekine / Richard Serra / Keith Sonnier / Michelle Stuart / Kishio Suga / Jiro Takamatsu / Anne Truitt / Günther Uecker / Yoshi Wada / Merrill Wagner / Meg Webster / Jackie Winsor / Iannis Xenakis - Curatrice: Jessica Morgan, direttrice della Dia Art Foundation