Spesso
mi capita di essere interpellato a proposito della limitata materialità ed
esteticità delle mie, o di altri artisti, opere (d’arte contemporanea).
Dell’eccessiva complessità del messaggio o della difficoltà nel linguaggio
usato per svelarlo.
Forse
è ancora d’uso aspettarsi il “bell’oggetto”. In tanti, davanti ad un lavoro
contemporanea, sperano di essere rapiti dalla “Sindrome di Stendhal”.
Ma
ciò ormai pare desueto. In una società che, da molti anni, ha fatto della
bellezza il suo fulcro, dimenticandone però l’anima, sarebbe riduttivo
pretendere tale condivisione anche da parte degli artisti. Il grande problema è
l’essenza dell’individuo.
Se
nel secolo scorso Dostojeski proponeva la bellezza come salvatrice
dell’umanità, oggi pare che codesta speranza si sia realizzato in modo
sbilanciato, dedicando una eccessiva attenzione alla patina, senza scendere
nella profondità dei bisogni umani, nel soddisfare anche una bellezza del
vivere.
Se
nel ‘800 si sveniva davanti ad una visione di un’opera d’arte, oggi bisogna
reagire, diventare attivi e non addormentarsi nelle braccia di Morfeo.
Nel
nostro presente tutto è focalizzato sull’idea estetica, dove ogni cosa pare
vivere intorno alla superficie di una straripante bellezza. Oramai siamo
disposti a trasformare il nostro corpo, inserendo perfino materiali innaturali,
distruggendo in tal modo le connessioni della nostra rete biologica.
Rinunciando così alla nostra memoria, sia naturale sia fisica, per
assoggettarlo a un’idea di eterna bellezza/giovinezza, come se il momento più
completo di un individuo sia la sua fase di formazione, momento molto critico e
in continuo divenire.
(Tanto
per fare del gossip trovo spaventosa e mostruosa un’attrice come la Loren che
tenta la follia della staticità, trasformando in modo continuo il suo aspetto,
fermandolo a un tempo che ora non c’è più, rendendo il suo corpo innaturale e
irrispettoso del suo essere mutevole e reale.)
Abbiamo
sostituito il rispetto per la vecchiaia, quando finalmente si forma e completa
il percorso evolutivo di una persona, e quindi luogo del sapere e della
memoria, a vantaggio di un’eterna lobotomizzata gioventù passiva, idea già cara
alle dittature del secolo scorso.
L’arte
si trasforma e reagisce in modo violento e critico, cercando nel valore del suo
messaggio di provocare non sindromi ma atti concreti di risposta alla
congelazione della civiltà stessa. Essa ha mutato il suo interesse, passando
dagli oggetti puramente morti e decorativi a oggetti vivi e antropologici. Ci
viene in mente a tal proposito culture come quella egiziana e cinese, che
giunte al loro culmine si sono raggelate e fermate in un’idea somma di
bellezza, ma che alla fine concise con la morte e il crollo delle loro stessa
civiltà.